Livio Senigalliesi
Photoreporter

Ruanda

Cronaca

I Guardiani dei Teschi
Brano tratto dal libro “Diario dal Fronte” di Livio Senigalliesi

Un milione di Tutsi e Hutu moderati uccisi in soli 100 giorni a colpi di machete.

Almeno 250mila donne violentate. Un intero popolo avvelenato dall’odio etnico. Questo il bilancio del genocidio ruandese. 

Un olocausto africano senza precedenti, paragonabile solo alla Shoah, al genocidio degli Armeni, ai Killing Fields cambogiani, che insanguinò il Ruanda nella primavera del 1994, mentre l’Onu distoglieva lo sguardo e il mondo pensava ai mondiali di calcio.
In poco più di tre mesi, estremisti Hutu “Interahamwe”  massacrarono sistematicamente i membri della minoranza Tutsi. Ma non era che l’ultimo atto di un odio atavico insinuato nella popolazione locale dai Padri Bianchi belgi, che avevano usato il vecchio motto del ‘divide et impera’ al tempo del colonialismo.


Le scuole e le chiese diventarono mattatoi, mentre “Radio Mille Colline” avvertiva che “la fossa non era piena”. Tutto ciò fino all’arrivo del Fronte Patriottico Ruandese al comando di Paul Kagame, membro di una ricca famiglia, cresciuto in Uganda e formatosi alla scuola militare di Fort Leavenworth, in Kansas – Stati Uniti.  

L’arrivo dell’FPR bloccò il genocidio e provocò la fuga di circa 2 milioni di Hutu che sconfinati in Congo continuano a destabilizzare Kivu ed Ituri.
Oggi, a distanza di tanti anni, il Ruanda resta un Paese percorso dalle ombre di una memoria terribile. Una terra disseminata di ossari, dove 120mila detenuti per crimini legati al genocidio affollano le carceri, ma in cui affiora anche la voglia di ricominciare e dove le donne sono protagoniste.



Nyamata

Quando affronti temi complessi e dolorosi come questi, è necessario documentarsi, avere buoni contatti e prepararsi psicologicamente perché raccontare il Male per immagini non è affatto semplice. Trovare storie in questo cimitero sconfinato non è un problema ma il rapporto con i sopravvissuti è difficile in quanto i loro traumi profondi impediscono un dialogo ed io nutro il più intenso rispetto per la loro condizione e la loro fragilità. Quindi ci vuole tempo e pazienza. Osservarli stando in silenzio per giorni. Vederli muovere come zombi intorno ai teschi delle vittime e non chiedere, non fotografare. 

Aspettare, una parola fuori moda in un mondo che corre veloce. Ma io sono uno di quelli che cammina in direzione ostinata e contraria. Non ho padroni e mi prendo il tempo che serve per raccontare storie che necessitano di sensibilità e rispetto umano.

Mukama e Ruwema vagano dal giorno del genocidio intorno alla grande chiesa di Nyamata, 25 chilometri a sud di Kigali. Nella primavera del 1994 hanno perso tutto e quel luogo, diventato una tomba collettiva, rimane il loro unico punto di riferimento. A voce bassa raccontano che nella chiesa e nella zona intorno morirono circa ventimila persone. Poi confidano quanto sia importante e doloroso custodire la memoria. Sono contadini, persone semplici che non sono capaci di raccontare la complessità. Dicono poche parole, i loro occhi vagano nel vuoto e poi tacciono.


La chiesa è inondata da una strana luce che penetra dalle vetrate e dagli squarci aperti nel muro dalle granate lanciate dagli “Interahamwe” il giorno in cui si svolse il massacro. 

Fuori la giungla. Dentro la chiesa un silenzio irreale, interrotto solamente dal rumore dei topi che corrono fra le assi del tetto. Sul pavimento e sull’altare ci sono ancora teschi, vestiti laceri e tracce di sangue.

Tra i banchi della chiesa dove un tempo si cantavano inni al Signore, giacciono i resti di 5000 tutsi, finiti a colpi di machete e lasciati in quel luogo a futura memoria.
All’esterno c’è un immenso ossario sotterraneo: 48 loculi in cui sono contenuti migliaia di teschi. Una scala ripida conduce a quelle stanze buie. Sembra di scendere all’inferno e di sentire ancora l’eco delle urla, come se la paura avesse marchiato in modo indelebile l’aria, la terra e quei muri.

Una lenta agonia.

I pubblici ministeri ed i giudici del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, con sede ad Arusha, quando si trovarono a giudicare i maggiori responsabili del genocidio, si resero conto che oltre ai feroci omicidi di massa, era stata perpetrata sistematicamente la violenza sessuale. Anche se quasi tutte le donne furono uccise prima di poter raccontare le loro storie, un rapporto delle Nazioni Unite ha concluso che durante il genocidio almeno 250mila ruandesi furono stuprate.

Le violenze di gruppo furono spesso accompagnate da sevizie commesse pubblicamente per amplificare il dolore e la degradazione delle vittime. Molte donne temevano la vergogna dello stupro a tal punto da implorare di essere uccise. Spesso le violenze sessuali erano preludio della morte, ma a volte le vittime venivano risparmiate perché la loro umiliazione ferisse per sempre tutto il nucleo famigliare. Per di più, l’elevata diffusione dell’Aids condannava le sopravvissute ad una lenta e dolorosa agonia. Secondo uno studio di “Avega”, associazione delle vedove del genocidio, il 70% delle donne sopravvissute agli stupri e molti dei loro figli oggi muoiono di Aids. 

Murambi, una scuola trasformata in ossario.

La scuola di Murambi è adagiata in cima a una collina a 2.000 metri di quota. Tutt’intorno la foresta. Sembra un paradiso ma dentro a quelle aule si è compiuta una delle mattanze più atroci: 45.000 morti, donne, vecchi e bambini.

Umurerwa Caritas, 28 anni mi viene incontro e mi conduce nelle grandi stanze dove giacciono i corpi calcinati delle vittime, restate così come sono cadute sotto i colpi dei machete. Una grande aula è adibita alla raccolta dei vestiti delle vittime.

Sono stesi a centinaia come vecchi panni al sole.

Le immagini sono fortissime. La tragedia è fotogenica ma l’approccio umano tenta di stemperare i toni più acuti e di mostrare unicamente l’essenziale. 

Le storie dei sopravvissuti, raccolti con pazienza in giorni e giorni di lavoro costituiscono la base di un progetto dedicato alla memoria. 

Tornato a casa, ho elaborato con la collaborazione di Silvia, valente grafica e compagna di vita, una mostra itinerante ed un libro per sensibilizzare i giovani.

Al di là delle numerose pubblicazioni sui giornali bisogna dare un senso più alto e durevole alle fotografie. Devono essere un patrimonio di tutti. E con i fondi raccolti con la vendita del libro ho dato il via ad un programma di aiuto per donne sole con figli gravemente disabili che vivono in uno slum di Kigali. Con questo sostegno, la vita di quei bambini è cambiata. Hanno avuto cibo e medicine e hanno coronato il loro sogno: andare a scuola come tutti gli altri bambini del mondo.

Il Ruanda oggi

Il centro della capitale Kigali oggi appare trasformato. Nuove case di lusso, hotel a 5 stelle e negozi alla moda hanno sostituito le baraccopoli. 

I fiumi di denaro, derivanti dai traffici di diamanti e metalli preziosi depredati nella giungla del vicino Congo, passano tutti di qui. La capitale del “Paese delle Mille Colline” è diventata il centro mondiale del commercio di diamanti, oro e coltan. 

Il Presidente Kagame detiene il potere con il pugno di ferro e sostiene gruppi di guerriglieri che controllano militarmente il Kivu e l’Ituri, le zone di estrazione dei preziosi metalli quotati alla Borsa di Anversa. Gli interessi delle grandi multinazionali della telefonia danno introiti favolosi al regime ma fino a quando? Il Paese resta a rischio. In Ruanda la Storia si ripete. Quello della primavera del 1994 è stato un tentativo di genocidio. Negli ambienti hutu ho sentito sussurrare: <Noi siamo sempre la maggioranza e aspettiamo il momento giusto per finire il lavoro>. Kagame è avvisato.

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