Interviste
RAI 3 – Frontiere
C’era Una Volta Il Muro
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Per convenzione si parla di fotografia di guerra e – di conseguenza – di fotografi di guerra. Ma la guerra, le guerre sono cambiate.
Come il lavoro di chi cerca di essere testimone di fatti e persone, di produrre una lettura il più possibile corretta del reale, dai diversi teatri di guerra, dai fronti o dalle retrovie: inviati, reporter, fotogiornalisti “embedded” (con le truppe, come durante le varie Guerre del Golfo) o “unilateral” (da indipendenti, a cercarsi sul campo la propria informazione).
Per raccontare non soltanto o soprattutto il teatro vero e proprio di battaglia, ma i tanti durante e dopo, la violenza, la vendetta, i massacri delle guerre civili, dei conflitti etnici e religiosi, degli interventi militari, la condizione dei rifugiati; i dolori, le sofferenze, le discriminazioni, le ingiustizie, la povertà, assieme al coraggio, la solidarietà, la voglia di sopravvivere e ricostruire.
Livio Senigalliesi è un fotografo di guerra, così viene definito – probabilmente semplificando – dall’esterno.
In occasione dell’uscita di Dispacci dal fronte (pubblicato lo scorso mese da EGA Editore per Reporters sans Frontières, in cui undici inviati raccontano la guerra con testi e, nel caso di Senigalliesi, fotografie) Sguardi lo ha intervistato per fargli raccontare – da dentro – il suo punto di vista, la sua fotografia intesa come testimonianza.
– Come è nato il tuo rapporto con la fotografia? Come hai scelto di fare questo mestiere e sei diventato quel che viene chiamato un fotografo di guerra?
La macchina fotografica è stata un sogno nel cassetto da quando ero un ragazzo.
Non me la potevo certo permettere con i problemi che c’erano in famiglia per arrivare alla fine del mese.
E così ho dovuto aspettare degli anni e il primo stipendio.
Ancora non sapevo che con quella reflex mi sarei guadagnato da vivere e avrei girato il mondo.
Gli anni della gavetta sono stati duri, com’è giusto che sia.
Non mi ha regalato niente nessuno e i galloni me li sono dovuti guadagnare sul campo.
Ma la guerra, la dannata guerra è venuta molti, molti anni dopo.
All’inizio fotografavo la realtà che mi circondava: le fabbriche del milanese, le manifestazioni operaie e studentesche, le periferie, la povertà e l’emarginazione.
Erano gli anni ’70, anni di lotte e di cambiamenti e la fotografia aveva un forte ruolo sociale.
Scattavo foto di quotidianità italiana, ma guardavo con attenzione ai problemi internazionali.
Mi ispiravo ai reportage di De Biasi, Lotti e Galligani e leggevo con passione gli articoli della Fallaci con le foto del grande Moroldo, sulle pagine de L’Europeo.
Partecipavo alle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam e lì si formava la mia coscienza civile e il mio ‘no alla guerra’.
L’impegno politico mi portò a collaborare con quelle testate della sinistra che davano spazio alle tematiche sociali.
Crescere all’interno del collettivo de il Manifesto mi ha dato tanto.
È stata una vera scuola di giornalismo dove ho imparato giorno dopo giorno la passione per l’inchiesta e l’approfondimento, capire le ragioni degli uni e degli altri.
Lezioni che mi sono servite anni dopo a comprendere scenari complessi come quello jugoslavo dove ci voleva tanta voglia di capire le origini dell’odio.
Studiare il passato per comprendere il presente.
Le foto venivano per ultime.
Forse è stata la passione per la Storia più che quella per la fotografia a portarmi a fare questo mestiere.
La voglia di vedere coi miei occhi e di comprendere i motivi che stanno all’origine dei fatti mi hanno portato – verso la metà degli anni ’80 – a intraprendere viaggi di conoscenza nei Paesi dell’est europeo.
Prima dei grandi cambiamenti che avrebbero segnato la fine del XX° secolo.
“Prima della pioggia”.
Quando cadde il muro di Berlino ero già lì ed è iniziato un periodo straordinario della mia vita e del mio lavoro che non si è ancora concluso.
I tragici fatti di Bucarest e di Mosca era come se mi preparassero a conflitti ben più ampi e sanguinosi.
Non avevo cercato la guerra ma era come se la guerra cercasse me o venisse a incrociare il mio cammino.
Rifiuto quindi il termine fotografo di guerra.
Mi piace la Storia e raccontare i conflitti sociali.
Tali conflitti, scatenati da rivalità etniche o da interessi di carattere economico, esplodono molto spesso in Paesi lontani ma anche qui in Italia, a Genova – durante i tragici giorni del G8 -mi sono sentito come molti altri al fronte e la repressione, il sangue, il dolore, la paura e la morte erano gli stessi vissuti altrove.
– La fotografia ha la capacità di raccontare, di trasmettere informazioni, mediata dalla sensibilità del fotografo.
Nel tuo sito c’è un’immagine accompagnata dalla frase «quando scoppia una guerra la prima vittima è la verità».
Cosa intendi?
Parlando di “verità” fino a che misura pensi si possa essere in grado di raccontare gli eventi “oggettivamente”?
Fino a che punto pensi che la fotografia possa «garantire il reale» come diceva Bourdieu, citato nell’introduzione di Mimmo Càndito di “Dispacci dal fronte”?
Tutti noi crediamo fermamente nella bontà e veridicità della fotografia quale riproduzione fedele della realtà.
Ma sappiamo anche quanto tale strumento sia stato usato in modo distorto nel corso della storia.
Pensiamo ai falsi storici di epoca sovietica ma anche alle elaborazioni consentite in tempi più recenti dai programmi di fotoritocco.
A mio avviso la fotografia può tuttora garantire il reale se c’è onestà in chi la scatta ma anche in chi la usa.
Il rischio di strumentalizzazioni è alto quando ci sono in gioco forti interessi.
Pensiamo a quanto diventa delicato ed essenziale il contenuto di una didascalia quando si parla di una strage di civili in un teatro di guerra.
La fotografia pubblicata sul mio sito riproduce cadaveri di guerriglieri kosovari uccisi nel corso di uno scontro con reparti dell’esercito jugoslavo.
Io scatto la foto, scrivo un’ampia e circostanziata didascalia e la invio ai giornali ma a questo punto perdo il controllo del prodotto finale.
Se il redattore che la impagina ha premura o non ha sensibilità per l’argomento e stralcia il complesso significato della didascalia, al lettore arriverà un’informazione distorta.
E se poi tali immagini servono ad avvalorare la bontà di un intervento militare ti rendi conto della portata del problema?
Da un semplice click derivano talvolta decisioni importanti.
Di qui il mio impegno ad affrontare situazioni complesse e drammatiche con la doverosa serietà.
Cerco sempre di prepararmi prima della partenza con la lettura di numerosi libri e seguo quotidianamente le notizie sui giornali e sul web per avere un quadro della situazione, attuale e pregressa.
Una buona conoscenza della letteratura e della lingua locale aiuta.
Un ruolo determinante lo giocano sul posto anche gli stringer, autisti e interpreti a cui ci si affida per raggiungere le zone calde.
I loro consigli, le chiavi di lettura degli avvenimenti, la corretta traduzione di un’intervista sono essenziali per un buon risultato.
Quindi dietro una storia che si condensa in una foto c’è molto spesso un lavoro di équipe.
A questi collaboratori che hanno con me condiviso impegno e rischi elevati devo molto. Con alcuni di loro sono in continuo contatto e a loro mi lega una sincera e profonda amicizia.
– In guerra si è esposti al dolore e alla paura, anche la propria. Come ti confronti con questi sentimenti? C’è il pericolo di assuefarsi alle sofferenze degli altri?
Da bambino sono cresciuto tra i racconti di chi aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale.
I ricordi angoscianti dei bombardamenti aerei o dei rastrellamenti dei nazisti alla ricerca dei partigiani erano rimasti vivi in me anche se faccio parte della generazione del dopo-guerra, quella della ricostruzione e del boom industriale.
Era come se in me ci fosse un tessuto fertile per l’argomento e a scuola studiavo con passione le pagine della Storia più recente.
Difficoltà e dolori familiari hanno poi aumentato la sensibilità per certe questioni.
Quando poi per mestiere ho dovuto raccontare le tragedie degli altri era come se in certe situazioni ritrovassi una parte di me.
E questo mi aiuta a comprendere stati d’animo, cogliere sguardi, lacrime o sorrisi.
Tuttora partecipo totalmente e in maniera viscerale alle tragedie causate dalla follia umana. Mi capita di scattare foto e di piangere o diurlare di dolore o per l’indignazione per quello che vedo attraverso l’obiettivo.
È un mio modo di essere, non posso farne a meno.
Il peso degli anni e le esperienze vissute non attenuano il pathos e la voglia di partecipare e di urlare il mio ‘no’.
Voglio essere vicino all’azione e vicino alle vittime e le mie fotografie lo testimoniano.
Non ci sono mezze misure ma riconosco che in questo modo si rischiatroppo.
In molti dei miei scatti c’è molto di più di una foto, c’è un pezzo di vita.
– Lavorando in zone di conflitto quanto percepisci il pericolo di finire, anche in buona fede, per subire le censure o fare da strumento di propaganda delle varie parti in lotta?
La guerra è un affare sporco in cui gli uomini danno spesso il peggio di sé.
Quelli che per gli uni sono sanguinari criminali di guerra, sul versante opposto diventano celebrati eroi nazionali.
Il passato come il presente sono pieni di esempi illustri.
Confondere i fatti è una tecnica antica e ai giorni nostri imedia giocano un ruolo fondamentale e strategico nell’ambito dell’informazione/disinformazione.
È difficile non cadere nelle trappole degli apparati di propaganda e la velocità di trasmissione di immagini e notizie non permette molto spesso una doverosa verifica dei fatti e delle fonti.
L’unico modo che conosco per evitare censure e strumentalizzazioni è quello di andare nei luoghi dove i fatti succedono, incontrare la gente, attraversare le linee e parlare con le opposte fazioni per capire i motivi degli uni e degli altri.
Ma per fare questo ci vuole tempo, spirito di sacrificio, voglia di verità e libertà d’azione. Spesso è solo un freelance che si può concedere tutto questo.
Quando hai padroni che ti impongono tempi, budget e schemi già confezionati è ben difficile realizzare un servizio esauriente che dia all’utente un’idea della complessità della situazione.
In alcuni casi, la diffusione di notizie ad hoc serve a creare il casus belli.
Accusare il regime iracheno di disporre di pericolose armi di distruzione di massa era necessario per avvalorare l’intervento armato della coalizione occidentale.
Tutti gli addetti ai lavori sapevano che era falso.
Gli stessi Osservatori dell’ONU non avevano trovato riscontri, ma ormai la macchina bellica era pronta e l’opinione pubblica internazionale non doveva avere dubbi.
Solo molti mesi dopo i rappresentanti del governo britannico e statunitense hanno ammesso pubblicamente l’errore, ma questo non è bastato per imporre il ritiro delle forze di occupazione.
E la mattanza continua.
Anche nel caso della strage di Racak in Kosovo si è fatto un uso strumentale dei morti di etnia albanese.
Ce ne erano già stati tanti nel corso di un anno ma non avevano commosso nessuno.
Poi un giorno – nel gennaio del 1999 – frotte di giornalisti vennero accompagnati dal responsabile della Missione OSCE, William Walker, sul luogo dell’ennesima strage di civili. Alle troupe televisive di mezzo mondo venne data in pasto una versione che nessuno ebbe modo di verificare.
Anche in questo caso la molla era pronta a scattare e serviva solo un buon movente (per saperne di più http://web.tiscalinet.it/Controcorrente/racak.html.htm).
Iniziarono così 78 giorni di indiscriminati bombardamenti sulla Serbia e sul Kosovo che provocarono la morte di tanti civili innocenti.
Si colpirono per errore l’Ambasciata cinese e la sede della Televisione a Belgrado, treni, scuole, ospedali, impianti industriali e colonne di profughi.
I portavoce militari e i media ossequiosi li chiamano effetti collaterali.
Nell’Iraq occupato è impossibile un giornalismo libero e non schierato.
Troppi i limiti per la stampa imposti dalla situazione.
Troppo alto il rischio di venire uccisi o sequestrati.
Troppi interessi sono in gioco e il grande pubblico non deve capire, non deve sapere, non deve ricordare.
E la scelta di essere embedded è troppo parziale per il mio modo di fare questa professione.
Non dimentichiamo che le foto delle torture nel carcere di Abu Ghraib o le immagini delle bare dei soldati americani uccisi sono state diffuse via internet dagli stessi soldati USA. Quanto spazio d’azione rimane ai professionisti dell’immagine?
Ormai in questi scenari così delicati tutto è sotto controllo.
Tra le tante vittime di questa guerra sporca ci sono anche la verità e un certo modo di fare il giornalismo.
Quel poco che si viene a sapere o vedere al di fuori della green zone lo dobbiamo agli stringer locali che troppo spesso pagano con la vita per un lavoro che dovremmo fare noi.
– Hai lavorato molto nei Balcani, coprendo le numerose guerre che hanno sconvolto la ex Jugoslavia. Ci torni ancora? E, più in generale, torni spesso nei luoghi dopo che gli eventi più drammatici sono passati?
Si, torno spesso nei Balcani e nelle aree di tensione in cui ho lavorato negli scorsi anni. Anche il dopo-guerra è denso di storie e degno di essere raccontato.
E poi ci sono zone calde come il Kosovo di cui non si è ancora definito lo status o luoghi dannati come Srebrenica dove a distanza di dieci anni si stanno ancora aprendo le fosse comuni.
Ma anche a Berlino, in Caucaso o in Medioriente torno sistematicamente per aggiornare l’archivio e documentare i cambiamenti.
– A proposito di cambiamenti, come ha mutato il mestiere del fotogiornalista la tecnologia digitale?
La tendenza è di lavorare sempre più in diretta, in tempo reale… Computer e reflex digitale sono una gran comodità, ma io quando posso lavoro ancora in pellicola.
Chi segue quotidianamente l’attualità non ne può fare a meno.
Ma nel mio caso, lavorando con tempi lunghi a reportage di approfondimento, c’è ancora il gusto di lavorare come una volta.
Talvolta mi sento un po’ come l’ultimo dei Mohicani, ma ho trovato conforto nelle parole di un grande maestro, Josef Koudelka, che durante un incontro tenuto recentemente a Milano diceva: «Scatto foto rigorosamente in bianco e nero.
Per sei, otto mesi scatto, scatto, scatto.
Poi mi fermo, torno a Parigi, sviluppo e poi editing, editing, editing».
Era musica per le mie orecchie.
– Riconosci degli elementi principali nel tuo stile? Privilegi delle focali in particolare?
Più che l’estetica prediligo il contenuto.
Non amo i virtuosismi in fase di ripresa, né le elaborazioni al computer.
Ho un grande rispetto per i soggetti che ritraggo e cerco di essere fedele a me stesso, a un certo modo etico di interpretare questo mestiere.
Per quanto riguarda le focali, non amo le vie di mezzo.
La mia ottica preferita è il 17mm.
– Hai messo a punto anche un’evoluzione del concetto tradizionale di mostra, una esposizione-performance teatrale «sulla guerra e sulla resistenza umana alla guerra» che hai chiamato “Oltre il muro”, in cui si raccontano le storie dei nuovi muri edificati dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, dei Balcani «come paradigma e laboratorio per il mondo post 11 settembre», il conflitto palestinese, la crisi afghana, le dimenticate guerre africane. Come funziona questa forma di sinergia con altre forme d’arte e cultura?
Quando le fotografie che ho scattato per anni per i giornali sono diventate lo scenario di una performance teatrale è come se riprendessero vita, come se uscissero dal cassetto dei ricordi per tornare a emozionarci, sconvolgerci e farci riflettere sulle cause e le conseguenze della guerra.
Una nuova esperienza per me così diversa ma coinvolgente che mi ha permesso di incontrare tante persone e trasmettere dal vivo i miei ricordi.
Si, dal vivo perché in Oltre il muro le immagini si possono toccare e le tragedie rivivono attraverso le voci e i gesti degli attori.
Tante le emozioni e i successi di pubblico; di un pubblico anche speciale, quello degli studenti delle scuole, dove la mostra/performance è diventata quasi una lezione di Storia contemporanea.
– Nel tuo sito – che per immagini e contenuti è stato premiato dalla prestigiosa rivista newyorkese PDN District News nel 2003 – c’è molto materiale di documentazione che, come scrivi, “vuole essere anche uno strumento didattico utile a promuovere una cultura della pace e motivare un deciso rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti”
www.liviosenigalliesi.com non è un sito di fotografia ma è un luogo di approfondimento e dibattito.
È molto visto e consultato anche da studenti e ricercatori che cercano testimonianze per le Tesi nelle Facoltà di Storia Contemporanea e Giornalismo.
Le immagini hanno un ruolo fondamentale ma sono sempre accompagnate da testi di giornalisti con cui collaboro e che consentono una lettura critica dei fatti.
– Tra i tuoi lavori, ce n’è uno che ti piace citare in particolare?
Sono profondamente legato al reportage realizzato in Vietnam per documentare le conseguenze dell’Agent Orange a più di 30 anni dalla fine del conflitto.
Per me è stato come chiudere un cerchio.
Una storia iniziata negli anni ’70 con le manifestazioni contro la guerra e terminata l’anno scorso risalendo il Delta del Mekong con la macchina fotografica al collo.
Ripensando alle immagini di Larry Barrows pubblicate su Life o a quelle di Gianfranco Moroldo per l’Europeo.
Una tragedia che non si è ancora conclusa, un reportage drammatico tutto dalla parte delle vittime per testimoniare ancora una volta le tragiche conseguenze della guerra sulle popolazioni civili.
Recensioni
Un obiettivo spalancato sul mondo.
Di fronte a un uomo che calpesta le macerie della sua casa, a una fila di persone che camminano verso il loro destino di profughi, a una fossa comune dissepolta con i suoi scheletri che ancora sembrano urlare, viene da pensare che le parole, lo sguardo, la pietà possano nulla perché la guerra e lì, con il suo odore acre di polvere e di decomposizione, forte come sa esserlo l’ingiustizia, inevitabile come ogni logica che abbia smarrito la ragione.
E allora che cosa ci fa quell’uomo con la macchina fotografica che osserva, punta il suo obiettivo, scatta per conservare tracce di una memoria altrimenti destinata all’oblio?
Fa quello che ritiene giusto: mostrare la voglia di credere che qualcosa si può fare, che non tutto è perduto.
Livio Senigalliesi non si accontenta delle prime sensazioni ma va alla ricerca di quanto scorre nel profondo per indurre chi osserva le sue immagini a riflettere. Infatti, le sue fotografie non indulgono compiaciute sugli aspetti più truculenti di una realtà che pure non ne risparmia: preferisce soffermarsi su particolari che al raccapriccio antepongano il ragionamento come quel parabrezza attraversato dai proiettili e schizzato di sangue, o quel letto cambogiano nudo, essenziale, anonimo se non fosse per quella catena che gli sembra aggrappata addosso come un artiglio per evocare di quanta crudeltà è capace l’uomo di fronte a un suo simile.
Lo sguardo di Senigalliesi è lucido, tagliente indagatore ed è così che collega fatti solo apparentemente lontani.
“Sguardo incrociato” spiega già nel titolo il metodo di lavoro del fotografo che per un verso racconta guerre e violenze e per l’altro indaga sulla condizione di chi da quei conflitti fugge per giungere da noi, in Italia.
E’ su costoro che Livio si sofferma, consapevole di dover stare sempre dalla parte di chi non ha voce per farsi conoscere.
Perché che cosa volete che dicano i ragazzi che trasportano cassette di pomodori in paesaggi che sembrano africani e sono invece pugliesi, gli uomini che incastrano i loro giacigli fra gli anfratti di un viadotto, le ragazze che si vendono ai bordi di stradoni anonimi?
Vorrebbero mostrarci i barconi ammassati l’uno sull’altro nel porto di Lampedusa che li hanno trasferiti da un passato pauroso a questo brutto presente.
Per loro lo fa il fotografo che sa bene di avere al collo un’arma debole come la sua fotocamera ma che usa con la forza della ragione e l’orgoglio di chi sa sfidare il mondo: proprio come quell’uomo da lui fotografato mentre, con un solo secchio d’acqua cerca di spegnere l’incendio della sua casa. Mica detto che non ci sia riuscito.
Livio Senigalliesi ha lavorato nei Balcani per quasi 11 anni.
Non c’è evento nelle numerose guerre che hanno sconvolto l’ex Jugoslavia a cui non abbia assistito.
Oggi è il momento per lui di trarre delle conclusioni, di pubblicare in un libro tutte le immagini scattate in quegli anni.
Ha deciso però di farlo senza ostentazione, sacrificando l’impatto emotivo della fotografia, concedendo privilegi all’informazione e alla sistematizzazione del suo percorso narrativo intrecciato con la Storia.
Le immagini lasciano ampio spazio ai testi, costringono a una doppia lettura, trattano storie difficili e inquietanti.
Il suo libro “Balkan” è una storia raccontata da più voci, sostenuta dalla narrazione sensibile e profonda di un fotografo che è riuscito ad essere un osservatore ma soprattutto un uomo che ha condiviso la sofferenza con le popolazioni.
Come raccontare la guerra?
In che modo descrivere i conflitti – ieri i Balcani, oggi l’Afghanistan – dove a morire non sono più solo i soldati ma soprattutto i civili, gli inermi, gli innocenti?
Quando i rancori del passato si sommano a quelli del presente, quando ingiustizie economiche e politiche si confondono con odi etnici, religiosi, tribali, i perchè di un conflitto divengono simili a matasse inestricabili che si perdono tra gli errori e gli orrori degli uni e degli altri.
Chiamati a raffigurare una simile complessità, tanti fotografi scelgono la via più facile: rinunciano a capire le molte cause di una guerra per inseguire solo la notizia, l’evento eclatante, quello stesso ‘fatto clamoroso’ che tutti i telegiornali del mondo già ci raccontano con dovizia di immagini, filmati, resoconti.
Per farsi notare in un mondo sovraccarico di informazioni troppo uguali, di notizie urlate, urlano anche le fotografie, spettacolarizzano il dolore e le morte, cercano d’imporsi come pugni nello stomaco, puntano a farci commuovere.
Lo stile diventa falsificante e ricattatorio come quello del giornalista televisivo che dopo una strage intervista i parenti sopravvissuti chiedendo:
“Come ci si tente ora che vi hanno ammazzato i vostri cari?”
e va avanti sadicamente finchè le lacrime non rigano i volti.
Possibile che per essere efficaci le immagini guerra debbano per forza essere a loro volta violente, debbano frugare nel dolore altrui senza discrezione e pietà, debbano obbligarci a vedere i morti come li hanno visti i lasciati i loro carnefici?
Spinte dal proposito di farsi notare a tutti i costi, queste fotografie vogliono venirci addosso come un treno, facendo leva sulla nostra indignazione emotiva più che sul nostro desiderio di capire.
Che non tutta la fotografia di guerra sia per fortuna di questo tenore lo dimostra il lavoro di Livio Senigalliesi, uno dei pochi fotogiornalisti italiani ad aver documentato tutte le guerre balcaniche e numerosi conflitti noti e meno noti che insanguinano il mondo.
Ogni immagine di Senigalliesi testimonia la sua umana partecipazione, la voglia di andare oltre le apparenze, di guardare la realtà diritto negli occhi, senza ideologie o prese di posizione, senza enfasi e smanie d’autore, perchè per lui è prima di tutto testimoniare, fotografare per raccontare, ponendosi dalla parte delle vittime, chiunque esse siano.
Anzichè puntare solo a inseguire le news, s’impegna a cercare i perchè e non solo cosa accade.
Osserva la quotidianità dell’orrore e della sofferenza, raccoglie le storie di chi i fatti li subisce, documenta i drammi e le ferite aperte del dopoguerra per mesi, per anni.
Ciò che colpisce delle sue immagini è il rispetto nei confronti degli altri, sempre presente anche nel dolore più estremo: l’altro non è infatti mai solo un profugo, un amalato, un morto, ma innanzitutto un’altra persona che ci guarda e ci interroga, che ha una storia al contempo diversa o simile alla nostra.
E’ proprio un simile riguardo a togliere i toni esclamativi da queste immagini, che suggeriscono più che aggredire, ma proprio così facendo rimangono nella memoria, ci obbligano a riflettere e non solo a vedere e constatare.
Ecco dunque che Senigalliesi, per testimoniare il dramma dei profughi del Kosovo, non indaga indiscreto la sofferenza dei volti, gli basta mostrarci le loro scarpe.
Scarpe distrutte, a brandelli, che ci raccontano la fatica, la paura, il dramma di una fuga patita tra le montagne.
Umili scarpe che il suo sguardo trasforma in un simbolo di una tragedia, così come l’immagine toccante scattata a duante l’assedio di Sarajevo, quella di un uomo che con un piccolo secchio d’acqua s’ostina impotente e tenace a cercare di spegnere le fiamme immani, impetuose appiccate alla sua casa.
Livio Senigalliesi appartiene, a pieno titolo, al gruppo tosto di cronisti che ha fatto la storia del giornalismo nei Balcani.
È una di quelle persone di cui non ricordi esattamente dove, quando o come l’hai visto negli ultimi dieci anni, ma lo sai per certo, era sempre al posto giusto al momento giusto.
Cercherò di ricordare alcuni dei “punti caldi” in cui ho visto il suo ciuffo biondo emergere da rovine, massacri, folle furiose, esplosioni, cortei di profughi in fuga come Sarajevo assediata, Mostar divisa, Bihac isolata, Brcko contesa , ha abbandonato Srebrenica, Gorazde morente, le tombe comuni di Zvornik, i profughi della Krajina, le manifestazioni di Belgrado contro la dittatura, e poi, ovviamente, c’era il Kosovo, una provincia calpestata anche nei suoi angoli più remoti da Livio quando gli altri erano a malapena consapevoli di dove fosse o cosa stava accadendo.
Ho menzionato questi luoghi senza fare uno sforzo per ricordare i nostri incontri.
Ho tralasciato Plitvice, Osijek, Vukovar, perché non c’ero ancora, ma lui era proprio lì quando è iniziata la tragedia e sono sicuro che lo vedrò dove il cerchio degli eventi si chiuderà.
Purtroppo abbiamo motivo di credere che non tutti i disordini siano stati completamente sedati.
Come addetto stampa, troppo spesso chiuso in un ufficio, ho sempre nutrito grande rispetto e ammirazione per il lavoro dei giornalisti di guerra, di oggi “temerari cavalieri solitari”.
Ho cercato spesso di aiutarli al meglio delle mie capacità, ma questo è quasi inutile poiché solo la fortuna può davvero aiutarli.
Guardare le foto di Senigalliesi ti farà riflettere sulle storie che si celano dietro.
Se mai ti dovessi incontrare, ti parlerò delle difficoltà, delle sfide e anche dei rischi e dei sacrifici coinvolti nel prenderle.
Ho tempo per dirtelo, ora che Livio sta già pensando al suo prossimo scatto.