Guerra in paradiso.
Di Livio Senigalliesi
Srinagar / Kashmir
“Potrebbe essere un Paradiso ed invece è un Inferno!” grida Gulam, anziano albergatore di Srinagar, portando le braccia al cielo. Le belle house-boat lungo le rive del lago Dal, un tempo meta di migliaia di turisti stranieri, sono vuote.
L’economia di questo splendido angolo di mondo ai piedi delle vette himalayane è andata a picco a causa del decennale conflitto tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir. Ovunque soldati in assetto di guerra. Aeroporto blindato. Città in stato d’assedio.
Non passa giorno senza un sanguinoso bilancio di morti e feriti.
Nelle ultime settimane si sono intensificati gli incontri tra i vertici indiani e pakistani ma a Jammu e Srinagar – i due centri più importanti della valle – la tensione è altissima a causa degli attentati contro obiettivi civili e militari dei gruppi separatisti che lottano per l’indipendenza della regione. La disputa ebbe inizio nel 1947, anno dell’indipendenza dalla corona britannica e della spartizione forzata della regione tra India e Pakistan. Dopo l’ultimo Raja Hari Singh, iniziò il conflitto armato che si trascina fino ai giorni nostri. Dal 1948 le Nazioni Unite hanno istituito una missione di monitoraggio (UNMOGIP) che ha sortito ben poco successo. I 47 osservatori ONU di varie nazionalità, forse a causa del numero esiguo e del debole mandato, hanno potuto solo registrare una continua e sanguinosa escalation degli scontri e della tensione.
Il colonnello Mukhtiyar Singh, portavoce dell’Esercito indiano presso il Comando di Srinagar dice stentoreo:
“Dopo gli attacchi agli USA dell’11 settembre 2001, è ancora più chiaro il ruolo dell’India nella lotta dei Paesi democratici contro il terrorismo islamico. Il nostro esercito è impegnato duramente nella repressione delle attività dei gruppi armati che si infiltrano attraverso i confini pakistani per compiere quotidianamente attacchi contro le nostre forze di sicurezza e la popolazione civile. Le sofferenze della popolazione sono indicibili e gli atti di violenza sessuale contro le donne che vivono nei villaggi più a ridosso della linea di confine. Centinaia sono i soldati indiani feriti e uccisi durante gli scontri a fuoco.”
Visito con lui un ospedale militare. Sui volti dei soldati feriti o orrendamente mutilati traspare sofferenza ma anche forza e dignità. Il caporale Palwinder Singh, 23 anni, viene dal Punjab e appartiene ad un reparto di Forze Speciali dell’Esercito Indiano.
Ha perso una gamba saltando su una mina ma afferma deciso:
“Non vedo l’ora di mettere l’arto artificiale per tornare a camminare e a combattere”.
Dopo aver superato le lungaggini burocratiche ed aver ottenuto i difficili permessi, accompagno una pattuglia dell’esercito nelle strade di Srinagar. Eseguono posti di blocco.
Fermano automobili alla ricerca di armi ed esplosivi. Puntano le armi e scrutano con sospetto la gente che passa, come se chiunque fosse un pericoloso terrorista. I kashmiri li guardano con odio. Li considerano un esercito occupante. Nelle strade fangose del borgo vecchio, tra le antiche case in legno, c’è la sede della commissione per i diritti umani. Parvina Ahanger, madre di un giovane ucciso nelle carceri indiane dopo l’arresto, dice tra le lacrime:
“Anche il Kashmir ha i suoi desaparecidos! Verrà il giorno in cui il governo indiano dovrà rendere conto davanti ad un Tribunale Internazionale dei crimini e dei soprusi contro uomini e donne innocenti!”.
Mi mostra una serie di fotografie raccapriccianti di persone morte sotto tortura nelle carceri o nei comandi di polizia. I corpi vengono restituiti raramente. Spesso spariscono nel nulla.
Parvez Imroz, uno dei leader del movimento per i diritti umani, dice:
“E’ dal 1989 che chiediamo spiegazioni al governo. Secondo la polizia sono 3.931 le persone scomparse ma per i famigliari sono più di 8.000. Esecuzioni extragiudiziali, torture, rapimenti, corpi bruciati nelle fosse comuni. Il Governo non ha aperto alcuna inchiesta perché sarebbe un modo per ammettere i propri crimini. Vogliono far credere che noi Kashmiri siamo tutti terroristi. Dicono che tra le nostre file ci sono guerriglieri ceceni o afgani di Al-Qaeda. Non è così. Qui c’è solo gente che lotta per la pace e l’indipendenza”.
In passato, tra queste montagne, indu e musulmani avevano sempre vissuto in pace. Qui nel 12° secolo giunse la corrente mistica del sufismo. I sufi erano predicatori itineranti dediti alla vita ascetica. Portavano vesti rozze dette suf, che sembra fossero le preferite del profeta Maometto. Incontrando i favori dei sovrani locali, il sufismo si espanse attirando sempre più numerosi adepti fra gli strati più bassi della società. L’islam, proclamando l’eguaglianza di tutti gli esseri umani, consentiva il superamento della suddivisione in caste della società indu.
Nella grande moschea Jama Masjid, ogni venerdi si radunano più di 50.000 fedeli in preghiera. Il loro leader politico e religioso è il Mullah Umar Faruk che incontro alla fine del sermone:
“Il problema del Kashmir non è religioso, ma politico. Siamo musulmani è vero, ma le tensioni derivano dalla divisione forzata delle comunità. Qui la linea di confine divide la terra e le stesse famiglie. La gente è costretta a vivere separata come nelle due Germanie. I fratelli pakistani sono cuore integrante della nostra cultura e quindi il Pakistan deve avere un ruolo primario nel futuro della regione. I gruppi armati che lottano per la nostra indipendenza, deporranno le armi solo se ci sarà un dialogo vero e costruttivo tra i rappresentanti kashmiri, pakistani e indiani”.
Nella sede del Fronte di Liberazione del Jammu e Kashmir, Jassin Malik, 36 anni, capo storico della resistenza contro l’esercito indiano, rilasciato dopo una lunga prigionia e ancora sotto sorveglianza, dichiara:
“Se l’India non prenderà in seria considerazione le aspirazioni del popolo kashmiro, non ci sarà pace. L’esercito indiano ci occupa da anni. Le nostre donne sono violentate dalle forze di sicurezza. Non ne possiamo più di torture e uccisioni sommarie. Bisogna trovare una soluzione politica che porti all’indipendenza del Kashmir. Questo è il nostro sogno e lotteremo fino al raggiungimento di questo obiettivo.”
Fino alla fine degli anni ’90 i guerriglieri erano circa 10.000 suddivisi in piccoli gruppi che facevano capo a 23 partiti indipendentisti locali.
Ora nessuno sa quanti siano. Il gruppo armato più importante nella Valle rimane l’Hizbul Mujahideen, forte di un migliaio di combattenti, per l’85% kashmiri.
Gli altri sarebbero essenzialmente suddivisi in quattro gruppi filo-pakistani: il Lashkar-i-Taiaba, responsabile di una serie di operazioni suicide lanciate nell’ultimo anno; il Jaish-e-Mohammed, ritenuto vicino all’organizzazione Al Qaeda; infine l’Harakat-ul Ansar e Al Badar.
Alcune fazioni hanno negli ultimi tempi deposto le armi cercando una soluzione politica al conflitto, pronti a riprendere la jihad nel caso il dialogo con Delhi fallisca.
Sui muri della sede del Fronte di Liberazione del Jammu e Kashmir, campeggiano i ritratti dei loro martiri. Chiedo a Tahir Ahmad Mir, uno dei leader della resistenza, quali siano le prospettive della loro lotta armata e politica.
“Lottiamo per la libertà e per migliori condizioni di vita. Per il rispetto dei diritti umani” dice. “Abbiamo avuto 100.000 morti e 5.000 donne violentate, ma voi in Occidente non sapete niente di questa guerra. Dobbiamo internazionalizzare la crisi. Il Kashmir è un vulcano. India e Pakistan possono firmare qualsiasi accordo, ma finchè non avremo l’indipendenza, tra queste montagne non ci sarà pace”.