Livio Senigalliesi
Photoreporter

Viaggio nel Sulcis

Inchiesta

La storia più remota della Sardegna, posta al centro del Mediterraneo, è raccontata dalle sue rocce, vecchie di oltre 500 milioni di anni, tra le più antiche dell’intero continente europeo.
In questa terra vennero racchiusi come in uno scrigno preziosi minerali come argento piombo zinco e carbone.
L’antica civiltà nuragica (1800 a.C. – 500 a.C.) lascia importanti resti delle attività metallurgiche in cui primeggiano lavorazioni in rame stagno e piombo.

Successivamente, popoli che venivano da lontano come Fenici e Cartaginesi si interessarono a queste risorse fino a quando giunsero i Romani che lasciarono importanti testimonianze le quali ci riportano ad antichi modi di dire come “Damnati ad metalla” il cui significato è legato allo stato di condanna ai lavori forzati presso le miniere sarde dei nemici di Roma.
Con la fine della dominazione romana le attività minerarie si affievoliscono fino al XIII° secolo quando i Pisani riprendono l’estrazione dei metalli. Si tratta di una attività arcaica e manuale che non dava grandi frutti.

E’ solo a partire dalla seconda metà del XIX° secolo che l’industria mineraria sarda – grazie all’arrivo di moderni macchinari ed esperti ingegneri stranieri – riprende notevole spinta realizzando notevoli produzioni di galena argentifera e sali di zinco.
Nello stesso periodo inizia lo sfruttamento delle miniere di carbone che durante il Ventennio Fascista – periodo dell’autarchia – ebbero una grande importanza fino alla costruzione di una città (Carbonia) che prendeva proprio il nome dai grandi giacimenti che stavano nel sottosuolo.
La nostra ricerca parte da questi dati economico-produttivi per focalizzarsi sulle vicende umane di migliaia di uomini donne e bambini che hanno lavorato con passione e sacrificio nei grandi impianti industriali e nelle malsane gallerie.
Non vanno dimenticati gli oltre 1700 minatori e cernitrici caduti sul lavoro nelle miniere sarde in poco più di un secolo e mezzo di attività.

Il periodo florido delle miniere termina alle soglie del terzo millennio.
Questa terra resta profondamente legata al ricordo di ciò che è stato.
Ogni famiglia ha un padre o un nonno minatore ed è mia intenzione valorizzare le loro memorie.
Oggi le miniere non sono più in produzione ma sono diventate giacimenti culturali di interesse internazionale protetti dall’UNESCO.
Ho visitato il Museo del carbone di Carbonia e sono sceso nelle viscere della terra alla profondità di 400 mt. nella miniera di Nuraxi Figus (Società Mineraria Carbosulcis).
Le attività metallifere fanno capo alla zona di Iglesias e Arbus.
Nella storica miniera di Montevecchio divenuta un museo a cielo aperto e nel Museo di Su Zulfuru a Fluminimaggiore ho raccolto immagini storiche e documentazione esclusiva.
Lungo la costa si erigono i resti di due importanti strutture minerarie: la Miniera di Porto Flavia e la laveria Lamarmora di Nebida.
Qui i ruderi del passato contrastano con il blu del mare e con il verde della macchia mediterranea.

Ringrazio sentitamente il Goethe Institut per avermi commissionato questo lavoro e tutti coloro che hanno collaborato con passione mettendomi a disposizione la loro esperienza e la conoscenza del settore minerario sardo, la cultura del luogo e le straordinarie tradizioni.

Nel cuore della terra

“Conta le gocce del mare, conta i granelli di sabbia, avrai contato i nostri sospiri nel cuore della terra”.
Sono versi del poeta ex-minatore Manlio Massole.
Parla degli uomini che perforavano la montagna alla ricerca di piombo e zinco, mangiando polveri e rischiando la silicosi, ma anche delle donne e dei ragazzini che per 10/12 ore, tutti i giorni – anche le domeniche – si consumavano le mani nell’acido delle laverie preposte alla separazione dei materiali buoni da quelli di scarto.

Nelle miniere di Buggerru, Monteponi e Montevecchio – quelle del comparto minerario – furono impiegate migliaia di donne tra la metà del 1800 e la metà del ‘900.
Un secolo di sfruttamento della manovalanza che colpiva soprattutto le famiglie povere, disposte ad un lavoro massacrante per un tozzo di pane.
Una legge voluta dal Re di Sardegna nel 1859, stabiliva una multa per le Società che mandavano a lavorare sottoterra bambini di età inferiore ai 10 anni.
Ma bastava averne 11, per ritrovarsi a spaccare pietre e portare grossi carichi che piegavano le ossa causando gravi scompensi per la crescita.

Lo sviluppo tecnologico diede una svolta alle pesanti modalità di estrazione manuali ed arcaiche.
A Montevecchio, nei pressi di Arbus, le antiche strutture – visitabili solo accompagnati da una guida – rivelano macchinari enormi e di grande valore storico.
Lo sviluppo della miniera e la necessità di maggiore produzione impose l’arrivo dall’estero di macchinari potenti di dimensioni ciclopiche.
Era un’impresa trasportarli fino a qui, nell’interno della Sardegna.
Compressori e altre macchine enormi e moderne, costruite negli Stati Uniti, in Germania o a Milano, arrivavano con le navi nel porto di Cagliari dove venivano smontate pezzo per pezzo e trasportate a bordo di treni fino alle aree di estrazione mineraria.
E’ stata davvero un’epopea!
In superficie come nella profondità delle gallerie si lavorava in modo frenetico.

Con la meccanizzazione dell’estrazione anche altri settori subirono sostanziosi cambiamenti.
Il trasporto dei materiali che avveniva tramite carri trainati da buoi o da centinaia di muli, venne sostituito dall’avvento di treni a scartamento ridotto.
Enormi file di vagoni carichi di materiali attraversavano lunghe gallerie che sbucavano sulla costa dove i pescatori – a bordo di barche chiamate bilancelle – portavano piombo zinco o carbone fino al Porto di Carloforte.
Ma anche questo non bastava.
A Porto Flavia si pose in connessione il punto estrattivo con la scogliera a strapiombo sul mare.
I metalli arrivavano portati con nastri trasportatori fino al bordo estremo della galleria e da li i materiali, per caduta libera, riempivano la stiva della nave da carico.
Grazie a queste nuove tecniche, tutto subì una notevole accelerazione e i minatori (e le cernitrici) vennero costretti al lavoro a cottimo.
Da un lato gli operai videro aumentare i guadagni ma allo stesso tempo aumentavano i rischi di incidenti sul lavoro.

La guida della Miniera di Montevecchio mi ha raccontato una vicenda che mi ha lasciato senza parole.
“Qui il Direttore poteva tutto, era considerato come un dio in terra.
Ogni sua decisione era un’ordine.
L’unica cosa che contava era il profitto economico.
La vita delle persone era un fattore secondario.
Tantissimi minatori, cernitrici e bambini subirono gravi incidenti e amputazioni.
Non c’erano ospedali nelle vicinanze e i feriti – trasportati a dorso di mulo – morivano dissanguati lungo il tragitto.
Se avveniva un’esplosione in galleria, i corpi delle vittime restavano sepolti per sempre; non c’erano adeguate strumentazioni per salvarli o recuperare i corpi.
In caso di morte, gli operai venivano sepolti in un cimitero lontano dalla miniera.
Il rischio che comportava il lavoro non doveva essere fonte di critiche nei confronti della Compagnia mineraria.

Ogni infortunio era considerato derivante dalla disattenzione del lavoratore.
La Direzione della miniera, sempre legata a poteri forti, non voleva che il lavoro venisse psicologicamente legato all’idea della morte.
Gli scioperi e le prime lotte sindacali per condizioni di lavoro migliori vennero represse nel sangue con l’intervento dell’esercito”.

Scioperare ai primi del ‘900 era considerato un atto rivoluzionario e come tale andava represso.
La condivisione di una vita tanto dura, aumentò la solidarietà tra i lavoratori che iniziarono a lottare per i propri diritti.
Ma ci vollero decenni per ottenere qualche cambiamento.
Durante il Ventennio Fascista, il regime di autarchia diede alle miniere sarde un valore strategico.
Benito Mussolini fondò la città di Carbonia e diete forte impulso all’estrazione di un minerale tanto importante per l’industria e la produzione bellica.
Negli stessi anni vennero riconosciuti ai lavoratori migliori condizioni di sicurezza e una paga adeguata.
Venne fissato un orario di 8 ore su tre turni, assistenza sanitaria, diritto alla casa e un limite minimo di età per l’utilizzo dei ragazzi e delle bambine.
L’apertura di scuole permise ai più piccoli di disporre di un’istruzione di base.
Fino a quel momento la povertà aveva indotto le famiglie ad un precoce avviamento dei bambini in miniera.
A loro era negata l’infanzia, il gioco e l’istruzione.
L’analfabetismo rimase altissimo fino agli anni ’50.
Solo nel dopo guerra vennero create scuole professionali dove creare una classe di tecnici e dirigenti sardi.

Il ruolo della donna in miniera

Iride Peis é una scrittrice sarda che ha dedicato la sua vita alla memoria delle donne e delle bambine che hanno lavorato nelle miniere dell’Iglesiente.
Vive a Guspini, nei pressi di Arbus.
E’ autrice di un bel libro: “Donne e bambine nella miniera di Montevecchio”
Iride ricorda lo sfruttamento, la fatica e i lutti di gente che non aveva nemmeno diritto alla parola.
Dice Iride:
”Le donne e le bambine che hanno faticato e sofferto nelle miniere di Montevecchio, Monteponi, Buggerru, Masua, Orbai, Arenas, Ingurtosu dovevano lavorare mute, senza alzare la testa.
Ora, attraverso la mia voce, raccontano ciò che hanno patito sulla loro pelle e indicano la strada affinché nessuna altra donna debba piangere per i suoi diritti calpestati.
Le undici giovani donne morte il 4 maggio 1871 nella miniera di Montevecchio, sono il simbolo di molte ingiustizie che continuano ad essere perpetrate in tanti angoli della Terra e che non possono lasciarci indifferenti”.

Erano chiamate cernitrici quelle donne che spaccavano i minerali estratti nelle gallerie e separavano le parti utili da quelle di scarto.
Ma avevano tante altre pesanti incombenze: spingevano i pesanti vagoni carichi di materiale estratto, spaccavano i pezzi più grandi a colpi di piccone, insaccavano in minerale lavorato. Mansioni massacranti, rischiose e mal retribuite.
Le paghe erano così basse che non bastava lo stipendio del marito e della moglie per vivere. Perciò venivano mandati in miniera anche i bambini….
La baracca era l’abitazione in cui alloggiavano le donne e le bambine che sceglievano di stare vicine alla miniera perché la stanchezza superava la voglia di rientrare a casa.
Troppa la strada da fare alla fine di una giornata di lavoro… il paese di Guspini distava 9 chilometri.

Le donne con bambini piccoli tornavano a casa per accudirli e per preparare la cena.
Si alzavano col buio e tornavano col buio.
Una vita da schiave.
Chi restava alle baracche doveva sopportare condizioni malsane.
Erano esposte al freddo e al gelo, senza acqua, senza servizi igienici, senza un focolare.
Le bambine tremavano, battevano i denti per il freddo o per la febbre, tossivano tutta la notte. Qualcuna piangeva.
Si dormiva vestiti coprendosi con le poche coperte consunte.
Notti da incubo e risvegli desolanti.
Non era permesso ammalarsi, pena la perdita del posto di lavoro.
Se una donna era incinta, nascondeva il suo stato.
Numerosi erano gli aborti causati dalla fatica e per il parto era concesso un solo giorno di permesso.
La baracca era anche il luogo dove la generosità, la solidarietà, la compassione e l’affetto trovavano modo di esternarsi in tanti piccoli gesti significativi come quello di dividere la minestra e un tozzo di pane o asciugare le lacrime di una bambina sofferente.
La baracca era un microcosmo di storie, età, bisogni, desideri e di sogni.
Si, perché malgrado tutto le giovani donne sognavano… e sognare a quell’età é giusto, é un diritto.

Patrizia Saias della Miniera Carbosulcis

Nel profondo del pozzo della Carbosulcis, alla profondità di 400 metri incontro Patrizia Saias.
Le scatto un bel ritratto alla luce della torcia.
Sul suo volto si leggono i sacrifici di una vita passata in miniera con orgoglio, fermezza e dignità.
“La miniera sta nel mio DNA.
La nonna di mio padre e di mia madre erano cernitrici, i miei nonni minatori e anche mio padre ha lavorato per 37 anni a Masua.
Sono cresciuta nel villaggio minerario di Monticani. Tutto intorno a me parlava di miniera ma da bambina sognavo il mare”.

La storia di Patrizia sembra una storia come tante ma più ci parlo e più la cosa si fa interessante e piena di sorprese…
“Sognavamo il mare ma noi apparteniamo alla terra, all’oscurità.
Respira, respira piano – dice Patrizia scendendo col montacarichi ai piani più profondi – i tuoi occhi si abitueranno presto al buio.
Non aver paura, questa é casa tua”.

Patrizia ha trascorso 30 anni in questi cunicoli.
Per lei è davvero “casa” e lo si vede dalla padronanza con cui percorre da sola i meandri più oscuri tra i rumori assordanti dei macchinari e la polvere di carbone che copre tutto e ti fa mancare il fiato.
La notte qui non finisce mai.

Patrizia mi confida:
”Quando sono scesa qui sotto per la prima volta mi sono sentita subito a mio agio, sembrava che qualcuno mi aspettasse, che i racconti dei miei nonni o di papà si concretizzassero e mi dicessero “benvenuta! L’unica cosa che mi ha fatto stare in ansia in questi anni era il pensiero delle mie figlie. Quando sei qui sotto sei irraggiungibile e speravo che a casa fosse tutto a posto…”.

Due anni fa la regista Valentina Pedicini ha raccontato la vita di Patrizia in un bellissimo film che ti fa calare nei meandri della terra dove uomini e donne lavorano senza sosta.
Ecco il trailer del film “Dal profondo”:

Un racconto quello di Patrizia, che nel film procede per silenzi, per camminate solitarie, per primi piani, per omissioni, paure, sguardi, più che per parole.
Ma quando parla arriva dritto al cuore.
Una voce “Dal Profondo”, che si rivolge ad un padre morto, come tanti qui, di silicosi
Invito tutti a vedere questo film perché aiuta a capire un mondo capovolto fatto di duro lavoro e di forti sentimenti.

Renato Tocco, “il visionario”

Bindua (Iglesias) 28 aprile 2018
Renato Tocco, perito minerario, 47 anni, dinamico e sorridente, mi attende all’entrata della sua miniera.
Si, avete capito bene, la sua miniera.
Perché Renato é talmente innamorato del suo lavoro e delle tradizioni minerarie della zona che si é comprato una miniera dismessa e da deciso di ristrutturarla.
“Sembra una storia da matti ma è andata così…cinque anni fa ho trovato su ebay questo appezzamento di terreno contenente un sito minerario dismesso e l’ho acquistato”.

Siamo circondati dalla macchia mediterranea.
Un luogo davvero selvaggio dove non ti aspetteresti di trovare un vero tesoro.
Dice Renato:
“Appena termino il mio turno di lavoro, ogni giorno vengo qui e lavoro sodo per aprire sentieri e ricostruire tratti di una vecchia ferrovia che collegava la miniera di Monteponi a Buggerru. Sogno di riportare in attività il trenino che portava i materiali estratti fino al mare.
Con l’aiuto dell’amico Giampiero Puddu, spacchiamo le pietre per costruire la massicciata e sistemiamo i vecchi binari.
Ci vorranno degli anni ma ci riusciremo. La passione é tanta e nulla ci può fermare”.

Nei pressi dell’entrata della galleria, Renato ha costruito delle capanne in perfetto stile sardo, come quelle usate dai minatori agli inizi del ‘900 per mangiare e dormire.
“Vedi Livio, questa é la tipica capanna sarda, costruita con i metodi e i materiali di un tempo.
La base é costituita da muretti a secco e il tetto è fatto di canne palustri.
Per reggere il tetto ho usato pali di agave, leggeri ma resistenti.
L’acqua arriva direttamente da una sorgente della zona.
Il questo luogo selvaggio e abbandonato ora si può vivere.
Ma per il momento si può lavorare e c’è tanto da fare!
Abbiamo liberato il tunnel della miniera dai materiali che lo ostruivano e vi abbiamo trovato vecchi strumenti di lavoro come il paiolo e la marra sarda”.

Sembra un posto perfetto per un itinerario turistico. Infatti questo diventerà un percorso botanico, ferroviario e minerario.
Renato mi conduce lungo il sentiero botanico e mi indica ad uno ad uno tutti i tipi di arbusti della macchia mediterranea: ginestra, cisto, lentisco, olivastro, euforbia, mirto e corbezzolo.
“In questi luoghi, a metà dell’ 800 si é scritta la storia mineraria.
Questo è il famoso Pozzo Baccarini.
Qui è stata usata per la prima volta la dinamite per facilitare l’estrazione di grosse quantità di minerale.
In questa galleria è stato realizzato il primo pozzo di scolo per far defluire le acque che impedivano la “coltivazione del minerale”.
Qui è stata posta in opera la prima linea telefonica e sono state sperimentate le perforatrici ad acqua compressa”.

Siamo davvero di fronte ad una pietra miliare dell’industria mineraria europea che va assolutamente valorizzata.
“Certo, andrebbe valorizzata ma non esiste accesso al credito e per realizzare questo progetto ci vorrebbero fondi pubblici.
Non è solo una mia proprietà ma queste strutture appartengono a tutta la comunità.
Nella vecchia palazzina degli uffici, distrutta dal tempo e dalle intemperie, si potrebbe creare un bed&breakfast.
Questa struttura in rovina potrebbe dare lavoro”.


In questa valle selvaggia ha avuto inizio il “periodo eroico” delle miniere.
Sul vicino Monte San Giovanni sono ancora visibili le antiche gallerie pisane risalenti al 1300.
Se Renato “il visionario” riuscirà nell’impresa, nel Pozzo Baccarini tornerà la vita.

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