Livio Senigalliesi
Photoreporter

Berlino 1989

Inchiesta

Ricordi e immagini di un viaggio nella DDR
Testo: Uta Keseling – Foto: Livio Senigalliesi per Berliner Morgenpost

Nel novembre 2009 una giornalista tedesca e un fotografo italiano tornano 20 anni dopo nelle stesse zone della DDR e raccontano una Germania non ancora unificata.

Livio Senigalliesi, fotoreporter inviato del quotidiano italiano “il Manifesto”, alla fine degli anni ’80 é impegnato in un ampio lavoro di documentazione dei Paesi del Patto di Varsavia. Sulla scia dei cambiamenti introdotti dal 1986 da Michail Gorbaciov, registra lo stile di vita, le modalità di lavoro e le speranze di innovazione in Cecoslovacchia, Romania e Germania Est. Prende contatti, intervista intellettuali dissidenti, vive tra la gente e pone le basi per un lungo periodo di permanenza in un area strategica che si avviava ad una svolta storica.

All’inizio di ottobre del 1989 Senigalliesi si accredita a Berlino Est. Proprio in quei giorni si svolgevano imponenti manifestazioni nella città di Lipsia per chiedere libere elezioni, l’abolizione delle restrizioni di viaggio, la legittimazione delle forze d’opposizione. Il regime della SED barcolla. Iniziano fughe di gruppi di persone nel sud della DDR verso Cecoslovacchia e Ungheria.
È una svolta storica. La ‘cortina di ferro‘ si stava sgretolando per effetto di processi di riforma legati alla perestrojka e alla glasnost.
Il 9 novembre Livio é a Berlino, nella città-simbolo della guerra fredda e accade qualcosa di incredibile: cade il Muro.

La sera del 9 novembre la notizia viene diffusa da Rundfunk der DDR, l’emittente radio ufficiale della SED. Migliaia di berlinesi dell’Est iniziarono a recarsi ai posti di frontiera ed i Vopos (guardie di confine), colti di sorpresa, non aprono il fuoco. I comandanti dei vari presidi militari di confine – come il Checkpoint Charlie non ricevevano ordini superiori. Era il caos. La pressione delle migliaia di abitanti di Berlino Est era enorme e verso l’alba del 10 novembre i soldati decisero di aprire i varchi. Berlino Ovest venne invasa da un’umanità in festa, tutti finalmente uniti in un grande abbraccio.

Mentre molti giornalisti stranieri, terminata l’euforia dei primi giorni, ripartono, Senigalliesi continuò a osservare il destino delle due “Germanie” dalla finestra di una casa occupata nel quartiere di Kreuzberg vicino al Check-point Charlie. Ogni giorno si recava all’Est per cogliere i segni di cambiamento ma tutti si resero conto che una reale unificazione richiedeva tempo.
Nelle strade intorno ad Alexander Platz, le persone erano tese, preoccupate, avevano stampato in faccia l’interrogativo sul futuro, anche se l’allora cancelliere tedesco occidentale Helmut Kohl prometteva “paesaggi in fiore”.

Nella primavera del 1990 Senigalliesi programma un viaggio nella Ddr per fissare sulla pellicola ciò che resta del passato ed i primi passi verso la normalizzazione. Nel frattempo si parla di portare la capitale da Bonn a Berlino.

Nella DDR tutto era rimasto congelato ai tempi della guerra. Molti quartieri erano ancora pieni di macerie. Il Reichstag era in rovina e portava evidenti segni degli incendi causati dai bombardamenti alleati e dai combattimenti tra gli ultimi reparti della Wermacht e le soverchianti forze sovietiche. La presenza dell’Armata Rossa era ovunque. Soldati russi in assetto da guerra presidiavano tutti i punti strategici e per uscire dalla città c’erano fittissimi posti di blocco che si potevano superare solo grazie a permessi speciali emessi dalle forze di occupazione.

DDR 1990
Livio dispone di un raro accredito per i corrispondenti stranieri e programma con la giovane interprete Uta un viaggio nelle zone industriali della DDR. Per compiere questa missione era indispensabile il supporto del Press-center di Berlino-Est e la collaborazione dell’alto comando sovietico. Una settimana dopo aver avviato la richiesta ufficiale, il Press-center ci dava parere positivo. Ci recammo a grandi passi in Mohrenstraße 37 – la sede del Ministeriums für Auswärtige Presseinformation der DDR – dove ci mostrarono sulla carta geografica i grandi centri produttivi attorno a Lipsia e Bitterfeld, e ci rilasciarono permessi speciali per raggiungere le zone di produzione della lignite della Lusazia.
Per percorrere i circa 250 chilometri da Berlino a Sangerhausen impiegammo un’intera giornata. Viaggiavamo a bordo di una vecchia Trabant. L’autostrada composta da piastre di cemento (che in caso di guerra potevano essere utilizzare anche come piste di decollo degli aviogetti).
Vicino a Bitterfeld veniamo fermati ad un posto di blocco di soldati dell’Armata Rossa. Sembra un teatro di guerra. sui lati della strada nidi di mitragliatrici e due carri armati. Soldati in assetto da guerra con cani da guardia si avvicinano all’auto e ci chiedono in russo i documenti ed il lasciapassare. Esito un attimo a causa dell’emozione. I soldati, anche loro sorpresi per la nostra presenza, guardano con attenzione i documenti, prendono nota dei nostri dati personali e del numero di targa dell’auto e ci lasciano passare. Sembrava di essere in un film.
Si doveva proseguire diritto fino alla meta senza cambiare strada. Eravamo sicuramente seguiti. Ovunque c’erano militari. Eravamo entrati in una zona strategica.

Nella Germania occidentale, Bitterfeld è presto diventato sinonimo del fallimento dell’economia della Ddr: questa regione è tristemente nota per i suoi laghi inquinati, l’alto tasso di inquinamento e i campi deserti in cui non cresce più niente.
In mezzo a nere, fumose ciminiere, Livio fotografa operai all’uscita dalle fabbriche, panni stesi e svolazzanti nel cortile di una baracca e due bimbi curiosi dall’aria tenera e trasparente accanto a tutto quel fumo acre che fa bruciare gli occhi e la gola. Qui ci mandavano ai lavori forzati anche i galeotti o gli oppositori del regime. Le condizioni di vita erano molto dure e molti morivano di malattia.

I turisti fai-da-te nei programmi dell’economia socialista non erano previsti. A Sangerhausen ci aspetta un incontro davvero straordinario. Saremo i primi stranieri a scendere nelle viscere della terra con i minatori. Un tipo, con fare circospetto, ci ferma mentre scattiamo delle immagini del vecchio centro storico della cittadina mineraria e ci consegna la chiave dell’alloggio dei minatori: un locale vuoto e non riscaldato, con qualche materasso.
Alla sera, in una sorta di ‘trattoria di Stato’ ordiniamo pane, salame e cetrioli sott’aceto, gli unici generi alimentari a disposizione. La mattina dopo, quando facciamo la nostra comparsa ai cancelli della miniera, sorgono nuovi problemi perché “le donne non possono entrare!”. Dopo un breve colloquio con il Direttore, Livio ottiene che anche Uta possa scendere sotto terra con i minatori a 700 metri di profondità. La necessità di tradurre gli ordini impartiti in caso di pericolo scardina ogni regola. Tutti ci guardano con sorpresa e interesse. Siamo in assoluto i primi stranieri che vedono dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Con molta gentilezza ci invitano a vestire i panni usati dai minatori, prendere un casco con la lampada e ci spiegano come indossare la maschera anti-gas in caso di pericolo.
Parte il montacarichi e spofondiamo in un mondo alieno. Giunti alla profondità dove i minatori devono prendere servizio, saliamo su un piccolo trenino che porta gli uomini negli stretti cunicoli dove si estrae il rame. In ogni vagoncino c’è posto solo per due persone e dobbiamo tenere la testa bassa da quanto sono basse e strette le gallerie. Viaggiamo nel buio più totale. Non sentiamo nemmeno le voci del vicino tanto è forte il frastuono e lo sferragliare dei vagoni sulle rotaie a scartamento ridotto.
Arrivati sul fronte del materiale in via di estrazione, circa un migliaio di minatori, in un caos apparente aumentato dalla mancanza di luce, si danno il cambio. Lavorano a turni, giorno e notte.
A luce fioca delle lampade che portiamo sul casco, ci guardano come se fossimo fantasmi.
Nessun giornalista è mai sceso quaggiù. Quando ci sentono parlare italiano, scoppia l’entusiasmo: sono in corso i mondiali di calcio del ’90, quelli della famosa partita Italia-Germania, ed uno degli operai grida “Ah, Toto Schillaci!”, e tutti ridono.

Continua il viaggio a carponi in cunicoli sempre più angusti. Le ginocchia affondano nel fango e temiamo per l’integrità delle fotocamere che subiscono botte e schizzi di melma. Uno dei capi-reparto si getta per terra di fronte a noi per mostrarci le modalità di lavoro e restiamo allibiti.
Qui si lavora stando sdraiati. I minatori strisciano per 8 ore in una melma salata, a una temperatura di otto gradi. L’ambiente è claustrofobico. I cunicoli sono alti al massimo 80 centimetri.
Con pesanti martelli pneumatici lunghi un metro in mezzo a un rumore assordante aprono fori nell’ardesia. Rimbombano detonazioni e stridono le pompe idrauliche. Negli ultimi cent’anni non dev’essere cambiato quasi niente. La terribile fatica e le malattie respiratorie contratte per anni in quelle condizioni malsane avevano un solo lato positivo: durante il regime socialista i lavori più pesanti avevano un valore. I minatori erano pagati meglio dei docenti universitari.

Nella primavera del ’90 chi prendeva le decisioni in ambito economico aveva già deciso la chiusura dei pozzi delle miniere, ma ai lavoratori non è stato detto ancora niente.
Nell’arco di due mesi avverrà la chiusura di tutte le unità produttive perchè considerate fuori dagli standard previsti nell’Europa occidentale. Gli operai del comparto dell’industria pesante ed estrattiva subirono la decisione senza opporsi ma affogarono nell’alcol la cocente delusione. Rimasero senza lavoro e senza casa in quanto tutto apparteneva allo Stato.
Il costo dell’unificazione per questa gente fu altissimo e ancora oggi se capita di parlare con alcuni ex-minatori ti rendi conto del vuoto lasciato dal quel mondo scomparso. Il passaggio ‘al mercato’ è stato troppo rapido e radicale.

IL MUSEO DI OGGI
La “Thomas Müntzer” oggi è un Museo della miniera.
Vengono proposti percorsi di trekking sui cumuli piramidali di scorie e visite guidate nei vecchi cunicoli: “La variante più estrema si svolge con tutto l’equipaggiamento, in alcuni punti anche in ginocchio”, spiega il direttore del museo, prima di condurci alla nostra seconda visita sotto terra, dopo due decenni.

Mette di nuovo in moto i vecchi martelli pneumatici e le pompe cigolanti, come se volesse riportare l’attività in quelle gallerie deserte. Ma è tutto inutile: fino all’estate del ’90 seimila uomini avevano un lavoro, oggi ne rimangono cinque nel museo.
Decidiamo di andare a mangiare in un paese vicino Sangerhausen. È di nuovo sera. Troviamo un minuscolo locale ed entriamo per mangiare un boccone e vedere se è cambiato qualcosa.
Dentro, gli anziani clienti, tutti zitti, ingoiano carne con patate: è evidente che le severe norme alimentari sono finite. Ma il loro volto è triste. Sui muri della bettola ci sono quadretti di cartone con immagini di cervi e lampade in stile antico: è tutto come nel film Good Bye Lenin.

Anche i volti stanchi delle donne dietro ai loro boccali di birra non raccontano più nulla della vita quotidiana ai tempi del socialismo reale. Ora parlano solo di disoccupazione e disperazione e si fa largo un sentimento di cupa nostalgia.
Sulla strada del ritorno, Livio domanda: “Ma dov’è Bitterfeld?” e getta uno sguardo indagatore sui campi verdi, il cielo blu, l’autostrada che ronza, vellutata, sotto di noi. Bitterfeld nel 2009 si presenta tutta ripulita. Ci manca ciò che un tempo ci apparive estraneo: siepi di legno storte, piccole coltivazioni di legumi, in cui far crescere quello che l’economia pianificata non produceva e quell’aria acida, malata, prodatta dalle ciminiere delle industrie chimiche. Nuova anche la toponomastica di villaggi intorno: Teutschenthal, Schafstädt, Mücheln.
Questa volta si procede veloci in autostrada, non ci sono più i posti di blocco. Le moderne infrastrutture stradali sono state il primo mega-progetto unitario dopo il 1990. L’impressione è che si sia riunita la Germania ma è certo che ci vorranno decenni per rinsaldare le mentalità di persone che sono restate divise per troppo tempo.

COLLETTIVO “KARL MARX”
Dopo 20 anni torniamo a Senftenberg, a sud-est di Berlino, vicino alla frontiera polacca. Questa è la zona di estrazione della lignite, un tipo di carbone ad alto contenuto di zolfo molto usato ai tempi della Ddr come combustibile.
Dev’essere stato qui che Livio ha fotografato nella primavera del ’90 dei sorridenti mozambicani, ‘lavoratori invitati’, sotto la scritta “Collettivo Karl Marx”. Dicevano qualche parola in portoghese, lui rispondeva in italiano.

Come allora, un enorme macchinario, 14mila tonnellate di acciaio, si muove con voraci, agili bracci articolati e nastri trasportatori attraverso la campagna. Viene così a formarsi una valle artificiale, sul cui fondo giace, nero, il carbone.
Scavare la superficie su larga scala comporta la distruzione di vecchi insediamenti di contadini. Così in Germania, negli ultimi cento anni, sono scomparsi più di 300 villaggi.
Oltre ai mozambicani avevamo incontrato alcune operaie che facevano funzionare la gigantesca apparecchiatura di estrazione. Perché erano addette a lavori così duri? Faceva parte del sistema.

Quelle ex-operaie ora ricordano i buoni stipendi e il sistema sociale della Ddr, asili infantili per tutti e tempo pieno nelle scuole. Non erano scontente. In una fabbrica vicino a Senftenberg avevamo anche incontrato operaie che, in mezzo a calore e rumore indescrivibili, lavoravano il carbone (tutto era coperto da una densa patina nera). Eppure le donne magnificavano il sistema pensionistico della Ddr, con cui si sarebbero ritirate dal lavoro a 50 anni.

Oggi non troviamo più traccia del collettivo “Karl Marx”. Dicono che i mozambicani siano spariti subito dopo l’unificazione. Dimenticate anche le operaie. Nella cittadina di Senftenberg hanno chiuso tutto. Andati via tutti: ma dove? Soprattutto i giovani se ne sono andati all’ovest in cerca di lavoro.
Durante la primavera del 1990, ai tempi della nostra prima visita, eravamo stati invitati alla mensa operaia. Dai tavoli, uomini e donne in tenuta da lavoro ci guardavano incuriositi. Insieme a infiniti dati e cifre sull’attività mineraria, ci vennero servite montagne di patate e di carne: duplice dimostrazione dell’efficienza socialista. La lignite era una garanzia di sopravvivenza per la Ddr: l’85% dell’energia veniva assicurata da vecchie centrali che coloravano i cieli di nuvole gialle e velenose.

La mensa è rimasta tale e quale fino a oggi, con i settori separati, per gli “abiti civili” e per le “tenute da lavoro”, uguali anche gli sguardi che sfrecciano sopra le nostre teste.
Nel 2009 si mangiano tortellini al ragù e si beve Coca-Cola, conditi da dépliant a colori sul futuro della lignite. La regione vicina dovrà anch’essa essere dragata. La miniera, malgrado tutto avanza sulla superficie ridotta ad un deserto brullo. In certi villaggi la terza generazione comincia già a protestare contro la distruzione della terra. Che cosa significhi vivere su un terreno così colpito, lo avevamo visto già 20 anni fa, mentre andavamo a Senftenberg.
Un villaggio distrutto, case in rovina e una scala a chiocciola in un campanile diroccato, che portava dritta in cielo. Quando poi, nella cava, facemmo alcune domande a riguardo, i funzionari ci condussero in un altro posto. Una serie di bungalow, tutti ben allineati, costruzioni modello di edilizia popolare. Gli abitanti accudivano il loro giardinetto. Volevano dirci: guardate come vivono bene gli sfollati della DDR.
Nel 2009 ci rendiamo conto che qui l’unificazione non ha portato la felicità. La maggior parte degli sfollati ha dovuto andare altrove.

Nel 2009 attraversiamo Heidemühl, un nuovo villaggio distrutto dall’avanzare della miniera. Anche l’odierno gestore della cava, il potente ente energetico Vattenfall, vuole dimostrarci come vivono bene quelli che sono stati costretti a trasferirsi. La nuova Heidemühl si trova, come un regalo chiuso in un variopinto pacchetto, in un paesaggio “rigenerato”: tetti rilucenti, facciate colorate. Anche il laghetto per la pesca ha traslocato.
E per finire ci propongono un viaggio nel futuro. Visitiamo un lago che non esiste ancora.
Un caffè con sedie a sdraio simula leggerezza di fronte a un paesaggio lunare ai nostri piedi: un’antica cava di lignite, deserta e vuota a perdita d’occhio. Soltanto al centro fa capolino un getto d’acqua. La cava Meuro, presso Senftenberg, verrà colmata ed entro il 2018 dovrà esserci un lago. Al margine del deserto vi è una conca verdeggiante. Il Comune ha già progettato un porto. Ci vorranno anni perché arrivi la prima imbarcazione. Una nave per la speranza, in una terra che ha perso di più che nei 40 anni in cui si chiamava DDR.

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