Livio Senigalliesi
Photoreporter

Cambogia

Cronaca

S-21

Brano tratto dal libro “Diario dal Fronte” di Livio Senigalliesi

“Prima si legava la gente, poi la si portava sull’orlo della fossa e la si colpiva alla nuca con una zappa”. Così ricorda A Nàn, uno dei Khmer Rossi incaricati delle esecuzioni. “Ce l’avevano insegnato gli istruttori cinesi. Non si doveva sprecare nemmeno un colpo di pistola”.

L’olocausto cambogiano svoltosi dal 1975 al 1979 ebbe una caratteristica atroce: fu un auto-genocidio. 

La cricca di Pol Pot aveva deciso di riportare la Cambogia al tempo del bufalo e della zappa. Tutti gli adulti dovevano essere uccisi e diede questo terribile compito ai più giovani, che eseguivano gli ordini senza discutere. 

In quel modo – secondo il regime – dovevano creare “l’uomo nuovo”, una generazione arcaica che non aveva studiato, viaggiato, avuto contatti con stranieri. Il soggetto ideale della Kampucea Democratica era un contadino che lavorava nella risaia dall’alba al tramonto.

Il 17 aprile 1975 i Khmer Rossi presero il potere e tutti gli abitanti delle città furono deportati in campagna e ridotti in schiavitù. I più morivano di stenti ed i loro corpi cadevano esausti nel fango in mezzo alle piantine di riso. Non era ammessa pietà né rimorso.

I nuclei famigliari vennero subito divisi. Nel nuovo Stato cambogiano non si dovevano provare sentimenti. Tutti vivevano nel terrore. Anche gli stessi membri del partito temevano delazioni.

Ordini provenienti dai vertici del misterioso Angkar (il potere assoluto) venivano diffusi ogni giorno dagli altoparlanti posti in ogni villaggio.

La tortura era il mezzo più usato per estorcere false ammissioni sulla base delle quali veniva decisa l’eliminazione dei prigionieri. Un sistema folle che produsse immani sofferenze e la morte di 2 milioni di innocenti. 

A Nàn, capo del gruppo dei ‘torturatori rabbiosi’ ammette:<Guardavo i prigionieri come fossero animali. Non avevamo pietà. Ci avevano indottrinati e disumanizzati. Se dimostravamo efferatezza nella tortura e nell’uccisione delle vittime eravamo considerati dei buoni patrioti, dei figli dell’Angkar>.

S-21 era il famigerato centro di tortura ricavato nelle aule della scuola superiore Tuol Sleng, nel centro della capitale Phnom Penh. 

Tuttora vi aleggia un’atmosfera sinistra e la visita risulta inquietante. 

Sono le 21.000 fotografie scattate da un giovane fotografo cambogiano a raccontare l’orrore di ciò che avveniva dentro le mura di S-21. 

Il giovane Nhem Ein, era stato mandato dai Khmer Rossi a Shanghai, in Cina a soli 12 anni per un corso di fotografia finalizzato alla documentazione dei fasti del regime cambogiano.

Quando tornò a Phnom Pehn nel 1976, venne incaricato di fotografare tutti i prigionieri internati a Tuol Sleng. I suoi ritratti servivano a schedare i “nemici del Popolo”.

La Kamphucea Democratica cadde il 7 gennaio 1979 con l’arrivo dei soldati vietnamiti a Phnom Penh. Dopo aver abbattuto i cancelli del centro di tortura di S-21, i vietnamiti trovarono alcuni cadaveri ancora caldi nelle “stanze della morte”, ma non c’erano le cataste di morti che i soldati sovietici avevano scoperto a Birkenau.

Il regime aveva fatto sparire le prove fisiche del genocidio. 

Ma le migliaia di ritratti angoscianti scattati da Nhem Ein restano la prova inoppugnabile di quanto è successo. Le sue foto sono conservate nei saloni vuoti di S-21 in una mostra permanente che lascia senza fiato i visitatori. Tra i tanti scatti angoscianti quello che mi è rimasto più impresso è l’immagine di una madre con il suo piccolo tra le braccia: si chiamava Chan Kim Srung.

Nhem Ein, il giovane fotografo, ricorda:<Dalle stanze adibite alle torture giungevano giorno e notte terribili urla. Nelle grandi aule venivano ammassati centinaia di prigionieri bendati e incatenati gli uni agli altri. La latrina comune era una cassa vuota per proiettili di mitragliatrice. Chi entrava in quel luogo sapeva di non aver scampo. Quando li fotografavo avevano facce sconvolte ed io ero sempre molto triste ma dovevo continuare il mio lavoro>. 

Solo sette prigionieri sopravvissero a S-21. Uno di loro è il pittore Van Nath, che ha riprodotto su tela il peggio della crudeltà umana. Pinze che tranciavano capezzoli, scariche elettriche applicate ai genitali, immersioni forzate nell’acqua fino all’annegamento. 

I suoi racconti hanno ispirato il documentario “S-21” di Rithy Pank, dove si raccolgono le testimonianze dei sopravvissuti e i racconti degli assassini. 

Memorie divise che gettano una scura ombra sulla Cambogia di oggi. 

Dice Van Nath:<In questo Paese nessuno ha chiesto perdono. Se non c’è ammissione di una colpa, non ci può essere perdono né riconciliazione. Non ho mai sentito Duch, capo di S-21, chiedere scusa. Finché avrò vita continuerò a lottare per la giustizia. Questi criminali devono pagare>. 

Pol Pot, il dittatore e la mente malata che ha partorito tutto questo Male, è stato processato in tarda età ed è morto di infarto senza aver scontato la giusta condanna. Alcuni dei suoi più stretti collaboratori stanno da anni al governo e quindi la gente è costretta a convivere con i carnefici. 

Tutti negano l’atroce passato, ma se visiti i killing fields di Choeung Ek, cammini tra resti di milioni di uomini donne e bambini e ti rendi conto che tutto questo è veramente accaduto.

Siamo a 10 chilometri dal centro della capitale e qui sono avvenute ogni notte esecuzioni di massa. Finora hanno identificato 129 fosse comuni. Ed i monaci buddisti hanno eretto uno stupa per raccogliere i resti che affiorano dalla terra. 

Sento scricchiolare sotto i miei scarponi denti, pezzi di tibie o di crani che non avranno mai un nome né una degna sepoltura. Affiorano brandelli di stoffa, frammenti di mandibole e bottoni.

Durante il genocidio cambogiano sono sparite due generazioni e la popolazione attuale è molto giovane. Il loro motto è “dimenticare” ma risulta difficile quando passi davanti ad un albero sul cui tronco resta una larga macchia di sangue incrostato.

Era l’albero dove i giovani aguzzini di Pol Pot fracassavano le teste dei bambini. Neonati o bambini fino a tre anni. Tutto questo avveniva davanti agli occhi delle madri che assistevano straziate dal dolore ed impotenti, immerse nel fango di una fossa dove un attimo dopo venivano finite a colpi di zappa.

Nell’intento di portare avanti il mio progetto sulla Memoria e sulle atrocità commesse in passato e negli anni più recenti, mi sono volutamente calato in questi oscuri luoghi dove permane il senso di morte per capire se esiste un limite alla malvagità dell’uomo. 

Ne sono uscito profondamente provato. 

So che il mio primo dovere è quello di documentare, ad Auschwitz come a Srebrenica, a Phnom Pehn come a Nyamata, ma non riesco a farmi una ragione di tanto Male.

Le lacrime dei sopravvissuti mi toccano nel profondo del cuore. 

Quando incontro Chum Mey nella prigione di S-21, piango con lui e ascolto tra i singhiozzi i suoi racconti strazianti, le sue preghiere, il suo senso di colpa per essere sopravvissuto. Non riesco a scattare una fotografia e lo abbraccio cercando di consolarlo.

Credo che in quel momento trasmettere umanità, solidarietà e senso di sincera partecipazione conti più di qualsiasi cosa. Di fronte ad un massacro così vasto ed efferato mi sento impotente. Bastano i ritratti e l’obbiettivo disperato di Nhem Ein a testimoniare il terrore, l’angoscia e la disperazione.

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