Livio Senigalliesi
Photoreporter

Caucaso

Cronaca

Testo e foto di Livio Senigalliesi

La cultura dei villaggi caucasici, gli aul, è a noi sconosciuta. Così pure la geografia e i nomi di quelle piccole repubbliche divenute autonome dopo il crollo dell’Unione Sovietica: Cecenia, Inguscezia, Daghestan, Ossezia, Cabardino-Balkaria, Karacaevo-Circassia, Georgia, Azerbaijan, Armenia, Nagorno-Karabakh.
Per conoscere quei luoghi e quelle genti bisogna percorre valli isolate, pietrose, spazzate dal vento, abitate solo dalle aquile e da ruvidi pastori.

Millenarie torri di pietra e tombe musulmane è quello che resta della cultura dei Balkari. Un mondo arcaico tra le cime del Caucaso a ridosso del confine con la Georgia, dove i pochi anziani rimasti raccontano delle gesta dei loro avi valorosi che resistettero alle orde di Tamerlano. Sul ghiacciaio dell’Elbrus – la cima più alta del Caucaso – si erge un maestoso monumento ai caduti della seconda guerra mondiale. Qui tra le nevi eterne, migliaia di soldati dell’Armata Rossa hanno combattuto e vinto i fanti della divisione Edelweiss del Terzo Reich.
Nel centro della bella Nalcyk, capitale della Cabardino-Balkaria, dove soffia forte il vento indipendentista dei Circassi, troneggia ancora il vecchio monumento alla Principessa Maria, moglie cabarda dello Zar Ivan il Terribile.

Alla base della statua, ogni mattina, un’anziana babuska lucida una scritta in bronzo divenuta ormai anacronistica “Per sempre con la Russia”.
Gli occhi del vecchio Aladin, pastore azero della penisola di Absharon, si perdono nell’infinito della steppa e nella selva di pozzi di petrolio. A Beslan, i parenti delle giovani vittime del massacro della “Scuola 1”, continuano a portare fiori ed accendere candele soffocati dal doloroso ricordo e la voglia di vendetta.
In Inguscezia, retrovia del sanguinoso conflitto ceceno, si vive col fiato sospeso. Migliaia di profughi ammassati nelle tendopoli trascorrono nel gelo il loro decimo inverno.
A Grozny e in tutta la Cecenia continuano le uccisioni e le violazioni dei diritti umani nella più totale impunità. A poco servono le condanne del Consiglio d’Europa.

Continua la tensione tra le montagne del Nagorno-Karabakh. Lontano dagli occhi degli osservatori internazionali lo scontro tra Armenia e Azerbaijan rimane aggrappato ad un fragile cessate-il-fuoco.
Com’è possibile che tuttociò avvenga nella nostra più totale indifferenza? Al contrario dell’Iraq, dell’Afghanistan, dei Balcani e dell’Africa, le guerre del Caucaso si svolgono in un mondo chiuso e inaccessibile. Pochi i giornalisti occidentali che in questi anni hanno ottenuto un visto d’ingresso. Ancora meno quelli che hanno potuto muoversi nelle aree dei combattimenti senza incorrere nella censura e nei controlli. Ma queste considerazioni non bastano a giustificare un così grave silenzio.


Pianeta Caucaso
Testo e foto di Livio Senigalliesi

Da più di venti anni porto avanti un progetto dedicato ai conflitti e alle drammatiche conseguenze sulla popolazione civile. Ci sono guerre come quella dei Balcani e del Vicino-Oriente costantemente ‘viste’ e seguite attraverso gli schermi televisivi ed i giornali di tutto il mondo.
Altri conflitti – come quelli del Caucaso – sono invece dimenticati. Si svolgono a porte chiuse, lontani dagli occhi indiscreti dei giornalisti. Le popolazioni civili subiscono indicibili sofferenze ma per loro non ci sono missioni umanitarie e progetti di ricostruzione. Tutto avviene nel più totale e colpevole silenzio di quanti sono preposti ad informare e ad operare per la fine di quei conflitti. La tragedia della Scuola 1 di Beslan – 374 bambini uccisi il primo giorno di scuola nello scontro a fuoco tra guerriglieri ceceni e forze speciali russe – ha acceso in me la voglia di conoscere più da vicino quelle repubbliche nate dalla dissoluzione dell’impero sovietico. Così vicine e così lontane.

Nel settembre del 2004, partendo dalle macerie della Scuola 1 di Beslan, ho iniziato un lungo viaggio che mi ha portato dalle cime innevate del Caucaso alle torbide acque del Mar Caspio attraverso popoli, culture e paesaggi a noi sconosciuti.
Da questo importante lavoro di documentazione ho tratto 50 immagini che danno vita ad una mostra e sono raccolte in un catalogo accompagnate da testi che consentono una approfondimento ed una risposta alla nostra volontà di sapere ciò che accade alle porte dell’Europa. Non dobbiamo sottovalutare infatti che il continuo e proficuo allargamento dei confini della Comunità Europea porterà molto presto la regione caucasica alle ‘porte di casa’. Una maggiore conoscenza di quei popoli e della situazione geo-strategica di quell’area è quindi più che mai doverosa. Non possiamo dimenticare inoltre quanto sia già da oggi essenziale per la nostra economia l’apporto di risorse energetiche – gas e petrolio – che giungono nei nostri paesi grazie all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyan.


Uno sguardo curioso sul mondo.
Di Carlo Gubitosa, giornalista, autore del libro “Viaggio in Cecenia”

Nel grande circo dell’informazione esistono due diversi tipi di fotografie, due modi di raccontare il mondo con le immagini. Ci sono fotografie che trasmettono un senso di appagamento e di completezza, che saziano tutte le possibili curiosita’ del lettore, che sembrano voler dire “questa e’ la realta’, e non c’e’ altro da sapere”. Spesso queste immagini sono utilizzate per rendere piu’ semplice un racconto giornalistico, a volte con espliciti intenti di propaganda, per dire che una guerra e’ finita quando invece non lo e’ semplicemente mostrando l’immagine di una statua che cade.

Ci sono poi altri sguardi fotografici, che usano l’obiettivo in modo discreto, quasi come un buco della serratura che non pretende di abbracciare la verita’ in 35 millimetri di pellicola, ma che ci mostra dei frammenti di realta’ guardati con un occhio consapevole di tutta la complessità rimasta fuori dell’inquadratura.
“Io non voglio dimostrare niente, voglio solo mostrare”.
Questa frase del grande regista Federico Fellini sembra adattarsi perfettamente allo stile e al lavoro di Livio Senigalliesi, che con le sue immagini non ci regala facili certezze, non ci rende appagati e soddisfatti, non spaccia per verità oggettiva le sue prospettive personali, non da’ comode risposte, ma suscita buone domande, fa nascere curiosità e punti interrogativi che nutrono la mente abituandola alla complessita’ e alle contraddizioni, anticorpi contro le verita’ troppo facili e le spiegazioni troppo scontate.
Durante i sanguinosi conflitti dei Balcani i cameramen e i fotografi di tutto il mondo facevano mettere in posa i soldati delle varie parti, che sparavano colpi a vuoto davanti all’obiettivo per riconfermare tutte le certezze, i clichet, i pregiudizi e gli stereotipi che hanno accompagnato quella guerra, per dire all’Europa civile quello che voleva sentirsi dire:
“noi siamo diversi, a noi non potrebbe mai capitare”.

Livio Senigalliesi, invece, ha vissuto assieme alle popolazioni colpite dalla follia delle guerre balcaniche, e lo ha fatto come cittadino residente in quei luoghi prima ancora che come fotografo con la pazienza di chi sa aspettare anche dei mesi per scattare una foto con la prospettiva dell'”altro”, attraversando piu’ e piu’ volte i vari fronti di guerra per mostrare che cosa c’era dall’altra parte, cosa vedeva quel cecchino che per tanto tempo e’ stato solo un lontano riflesso luminoso, qual era la realta’ di chi vive sotto assedio, quali sono le ragioni e i volti dei “nemici”.

Oggi gli occhi curiosi di Livio, dopo le esperienze in paesi come Palestina, Cipro, Afghanistan, Kashmir, Mozambico, Sudan, Congo, Ruanda e Uganda ci accompagnano in un viaggio verso est alla scoperta delle terre del Caucaso, paesi sconosciuti ai piu’, che a volte hanno perfino nomi difficili da pronunciare e totalmente assenti dalle cronache di quei media globalizzati che si illudono di poter sostituire la qualita’ dell’informazione con la quantita’ delle notizie.
E’ questa l’informazione che trasforma il Caucaso nel “Pianeta Caucaso”, un territorio alieno e straniero di cui non sappiamo nulla perche’ nulla ci viene detto.

Percorrendo le immagini di questa mostra questo pianeta lontano comincera’ a diventarci piu’ vicino e familiare, quando parleremo di guerra penseremo all’Iraq ma anche alla Cecenia, quando ragioneremo sul mondo non guarderemo solo gli Stati Uniti con occhi strabici, ma penseremo anche ai mille popoli che ci guardano da est.
“Se le tue foto non sono molto buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”, ha scritto il leggendario fotoreporter di guerra Robert Capa, e se c’e’ una cosa che accomuna tutte le immagini che oggi vengono affidate al nostro sguardo, e’ il fatto di essere state raccolte da vicino. Buona visione.


Labirinto caucasico.
Di Ignacio Ramonet – Direttore di Le monde Diplomatique

Come per gli Stati Uniti c’è un prima e un dopo 11 settembre, anche per la Russia il tempo è scandito da un prima e un dopo-Beslan. Il sequestro di massa del settembre 2004 è sfociato nel massacro di circa 370 persone innocenti, di cui quasi 160 bambini. Questa nuova strage degli innocenti ha raggelato il mondo, turbato anche dallo sconclusionato e brutale intervento delle forze dell’ordine russe.

Con l’incredibile prova di inefficienza dell’apparato di sicurezza e la dimensione delirante della violenza dei sequestratori, Beslan segna senza dubbio una svolta nelle guerre del Caucaso.
Quella che Vladimir Putin si trova ad affrontare è una crisi di vasta portata; ma non è detto che ne valuti esattamente le dimensioni. Non ha forse dichiarato, all’indomani della strage: “Dobbiamo ammettere di non aver compreso la complessità e la pericolosità dei processi in atto nel nostro paese e nel mondo”? Un modo per affermare che la Russia fronteggia, al pari di altri Stati del pianeta, un avversario comune, il “terrorismo internazionale”, cioè l’islamismo radicale, o quella che alcuni chiamano la “Jihad islamica mondiale”.

Ma è un errore, della stessa natura di quello, tragico, commesso dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush nel marzo 2003, quando decise di invadere l’Iraq col pretesto di combattere il terrorismo di Al Qaeda. Ora anche la Russia si dichiara “in guerra”, proclama il ritorno a uno “stato forte”, si prepara a rivoluzionare il proprio sistema politico, a rafforzare i mezzi a disposizione dell’esercito e dei servizi segreti e parla addirittura di “attacchi preventivi per liquidare le basi terroristiche in qualunque regione del mondo”.
Le autorità rifiutano di ammettere che il terrorismo e l’islamismo cui devono far fronte oggi nel Caucaso sono solo strumenti, dato che il problema principale nella regione è il nazionalismo. È questa la più potente di tutte le energie politiche in campo, la forza di maggior rilievo della storia moderna, come testimonia la resistenza dei palestinesi.

Né il colonialismo, né l’imperialismo, né i totalitarismi hanno potuto venirne a capo. I movimenti nazionalisti non esitano a stabilire le alleanze più disparate per conseguire i loro obiettivi. Lo si può vedere, ad esempio, in Afghanistan e in Iraq, dove nazionalismo e islamismo si associano per condurre, attraverso nuove forme particolarmente odiose di terrorismo, una lotta di liberazione nazionale. Lo stesso accade in Cecenia. Nessun altro popolo ha opposto alla conquista russa del Caucaso una resistenza paragonabile a quella dei ceceni, che fin dal 1818 si sono battuti con grande coraggio.
Dopo l’implosione dell’Urss, nel 1991, la Cecenia si è proclamata indipendente. Ne è seguita una guerra con la Russia, che si è conclusa nell’agosto 1996 con la vittoria di una Cecenia dissanguata. A titolo di rappresaglia contro un’ondata di attentati, nell’ottobre 1999 l’armata russa ha nuovamente attaccato la Cecenia. Questo secondo conflitto ha completato la rovina di un paese già devastato. Mosca ha organizzato elezioni locali, collocando nei posti chiave personalità legate alla sua politica. Ma la resistenza cecena non disarma. Gli attentati continuano, e i russi perseverano in una repressione feroce.

Il contesto geopolitico non facilita le cose. Le autorità russe sono esasperate per i rapporti economici e militari sempre più stretti che Washington sta tessendo con la Georgia e con l’Azerbaigian, ai confini con la Cecenia. E mettono in relazione tali novità con la recente decisione del presidente George W. Bush di riorganizzare il dispiegamento delle forze armate Usa, spostando le truppe dalla Germania per trasferirle in paesi più vicini alla Russia, quali la Bulgaria, la Romania, la Polonia e l’Ungheria. Tutto questo ha rafforzato a Mosca la sensazione di essere una potenza sotto assedio.

Putin ha reagito mantenendo, contro il desiderio dei governi locali, le sue basi militari in Georgia e in Azerbaigian; e ha rafforzato la propria alleanza con l’Armenia, che tuttora occupa illegalmente alcuni territori dell’Azerbaigian e sostiene i separatismi dell’Abkazia e dell’Ossezia del sud. Incapaci di domare la Cecenia, i russi vogliono dimostrare che in tutto il Caucaso nulla si fa senza di loro. Sono tuttora ossessionati dallo spettro di un “secondo Afghanistan”.
Una nuova sconfitta nello scontro con la nebulosa islamista in Cecenia sarebbe ancora più umiliante e rischierebbe di appiccare il fuoco alla polveriera del Caucaso con la conseguenza di un nuovo smantellamento territoriale. Da qui il rifiuto di qualsiasi negoziato o riconoscimento del diritto all’autodeterminazione.
E la brutalità di una repressione che di rimando genera terroristi disposti a qualunque follia criminale.

Per ulteriori informazioni si rimanda al libro “Caucaso” edito da Mazzotta Editore, ricco di una bibliografia e sitografia utile a tutti coloro che vogliono approfondire l’argomento.

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