Livio Senigalliesi
Photoreporter

La guerra moderna. Droni killer e questioni morali.

Inchiesta

Gaza: un laboratorio per lo sviluppo di macchine di morte.

L’esercito israeliano conduce da anni nella più totale impunità vaste operazioni militari nei territori palestinesi e rappresaglie contro i missili lanciati da Hamas verso i kibbutz abitati dai coloni oltre il confine. Usando il popolo palestinese come cavie, l’esercito israeliano (IDF) sperimenta soluzioni sempre più sofisticate per controllare i confini, per operare il controllo a distanza o per eliminare membri della resistenza palestinese attraverso l’uso di droni. Le aziende del comparto bellico Elbit, IAI e Rafael, sono tra i leader mondiali nella progettazione e produzione di armi altamente tecnologiche ed esportano i loro prodotti in tutto il mondo.

Un mercato in grande espansione dove le considerazioni di carattere etico sono superate dai grandi margini economici e dagli interessi strategici. Un settore in cui CIA e Mossad collaborano apertamente.

I modelli di drone testati in zona di combattimento sono molto apprezzati dai “clienti” stranieri in quanto garantiscono l’affidabilità dell’aeromobile a pilotaggio remoto (APR) e la sua capacità letale. Nella pubblicità del modello Skylark, prodotto dalla israeliana Elbit Systems, si fa riferimento ai risultati (capacità letali) raggiunti durante l’Operazione Piombo Fuso del 2008. Nell’opuscolo pubblicitario distribuito nelle fiere internazionali del settore bellico, lo Skylark viene definito un “sistema d’attacco maturo e collaudato in zona di combattimento”. Queste definizioni quasi asettiche danno la misura di quanto questi strumenti di morte abbiano raggiunto una larga diffusione in molti teatri di guerra senza che nessuno ponga dei limiti o sia richiesto un particolare rispetto dei civili. Si lascia ai militari il diritto di vita o di morte delle persone considerate “bersagli”.

Salah Abdel Ati, avvocato palestinese, ex direttore della Commissione indipendente per i diritti umani di Gaza, dichiara: “Israele usa Gaza come un poligono di tiro. Questo è il principale motivo per cui la guerra continua senza tregua. Lo scontro con Hamas è solo una scusa, una giustificazione per continuare l’occupazione militare della Striscia e della Cisgiordania. Gli stessi ostaggi israeliani, rapiti nel kibbutz Be’eri e nei villaggi di confine il 7 ottobre 2023, sono vittime utili alla propaganda sionista. Sono agnelli sacrificali dei quali Netanyahu e i suoi generali non hanno alcun rispetto altrimenti sarebbero già scesi a patti con Hamas per garantire la loro salvezza. Li danno per spacciati. E questo lo sanno bene i famigliari degli ostaggi che da settimane riempiono le piazze di Tel Aviv protestando contro il cinismo e la corruzione dei governanti e dei capi dell’esercito. Dopo mesi di omertà, organi di stampa internazionali hanno sollevato dubbi sulla reale dinamica dei gravi fatti accaduti il 7 ottobre. Alti ufficiali dell’IDF hanno ammesso le responsabilità dei servizi segreti militari (Shin Beth) e dei reparti l’assalto israeliani intervenuti nell’area sotto attacco con l’ordine di sparare su tutto e su tutti. Non è vero che i servizi di sicurezza militari non sapessero. In realtà serviva un casus belli che desse a Israele la possibilità di scatenare la massiccia offensiva che ha portato alla distruzione di Gaza e allo sterminio di almeno 50mila civili palestinesi in maggioranza donne e bambini. Il piano militare dell’IDF era concepito da tempo. Un’operazione così vasta e sistematica richiede una lunga e meticolosa preparazione. Il computo reale delle vittime é impossibile perché un numero imprecisato di corpi sono rimasti sotto le macerie. Centinaia di migliaia sono i feriti e gli amputati che non hanno nemmeno un ospedale dove farsi curare perchè anche le strutture sanitarie sono state più volte bombardate e distrutte. Chi ha subito gravi amputazioni non può ricevere gli arti artificiali e la sua menomazione diventa sempre più evidente.

E’ di questi giorni l’atroce massacro di 15 soccorritori della Croce Rossa palestinese uccisi a brucia pelo da soldati israeliani e seppelliti in una grande fossa comune insieme ai resti delle ambulanze affinchè non restassero prove evidenti del massacro. Tutto quello che è stato documentato in questi lunghi mesi di guerra non è altro che un chiaro progetto di genocidio. L’accusa per cui è chiamato a rispondere Banjamin Netanyahu ed alcuni suoi ministri di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale. Un organo istituito alla fine della seconda guerra mondiale proprio per processare atroci delitti di massa come quelli in corso in Territori occupati militarmente e con metodi brutali da un esercito che non ha alcun rispetto della vita dei civili e dei più vulnerabili.

L’etica del drone

Nel 2009 Daniel Reisner, ex capo del dipartimento legale dell’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano Haaretz: “Se fai qualcosa di grave per un tempo abbastanza lungo, il mondo alla fine lo accetta ” [https://www.haaretz.com/2009-01-29/ty-article/consent-and-advise/0000017f-e1a6-d9aa-afff-f9fe5e100000].

I governanti israeliani, in questo modo, si sono spudoratamente vantati di aver aperto la strada a una delle pratiche più controverse della guerra moderna: uccidere dei “target” come in un war-game allontanando qualsiasi senso di colpa di chi uccide, operando a centinaia di chilometri dal contesto di guerra, armeggiando con un joystick. 

Nel recensire lo sconcertante libro “Rise And Kill First -The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations” [“Alzati e uccidi per primo: la storia segreta degli assassinii mirati di Israele”], un ex-agente della CIA scrive: “Una delle prime cose che mi è stata insegnata quando sono entrato nei reparti operativi della C.I.A. è che noi non commettiamo omicidi. […] Per questi crimini abbiamo trovato un eufemismo. Non li chiamiamo più assassinii ma ‘uccisioni mirate’, il più delle volte eseguite da droni che sono diventati l’arma d’avanguardia americana nella guerra al terrore.”[Kenneth M. Pollack. Learning From Israel’s Political Assassination Program. Nyt.com, 07.03.2018]. Una triste eredità lasciata dal presidente Barak Obama – Premio Nobel per la Pace – è stata un tremendo aumento dell’uso dei droni soprattutto in Pakistan, Somalia e Yemen causando la morte (stimata) di circa 3.797 persone; per molti dei quali non si è mai appurata l’identità, spesso donne e bambini casualmente sul luogo dell’operazione. Tristemente famosa in quanto divenuta virale sui social, è l’uccisione di una troupe dell’agenzia di stampa Reuters in Iraq nel 2007 i cui membri erano stati scambiati per uomini armati. Chi guardava al monitor la scena da migliaia di chilometri di distanza, non aveva appurato che i giornalisti portassero appresso fotocamere e videocamere. Dall’audio del video si comprende chiaramente che chi aveva il compito di decidere disse che si trattava di uomini armati di AK-47 e diede l’ordine agli elicotteri Apache di aprire il fuoco. Dodici membri della troupe televisiva, compresi autisti ed interpreti, vennero uccisi. 

Molti sostengono che la combinazione di moderna tecnologia e intelligence sia il perfetto binomio per operare in contesti complessi senza sporcarsi le mani. In effetti, nella testa di un militare, cos’é più attraente che uccidere possibili “terroristi” dal cielo con una tecnologia asettica minimizzando il rischio per le forze di terra? 

Per digerire questi concetti bisogna mettersi sempre nei panni di un soldato che ritiene opportuno usare la “maggior potenza di fuoco” pur di annientare una possibile minaccia esterna. Ma troppi errori sono stati compiuti in tutti questi anni su vari teatri di guerra come l’Iraq, l’Afghanistan e gli Stati del Vicino Oriente. Operazioni militari criminali che hanno usato la “guerra al terrore” per devastare popolazioni innocenti e/o depredare i loro immensi giacimenti d’idrocarburi e altri minerali strategici.

Le nostre complicità

Nonostante l’uso da parte dell’IDF di droni contro individui, luoghi pubblici, sedi del UNRWA  queste “azioni” ripugnanti sembra che non suscitino alcuna indignazione da parte della leadership mondiale. Nè vengono pubblicati studi a livello accademico. E’ come se questo scottante aspetto fosse coperto da una sorta di “OMISSIS”.

La letteratura specializzata si limita a riportare che lo Stato d’Israele produce e usa droni, mentre gli “effetti collaterali” derivati da tale uso a Gaza, Cisgiordania e Libano sono quasi assenti. Sollevare un dubbio, dissentire è considerato un reato.

È evidente quindi che la comunità internazionale, Italia inclusa, commerciando in armi con Israele e avendo con Tel Aviv un intenso scambio d’informazioni, sta partecipando in svariati modi alla guerra di IDF contro il popolo palestinese, offrendo un sostegno diretto all’aggressione e inviando un chiaro messaggio di approvazione delle politiche criminali del governo di Tel Aviv che si sente protetto da accordi tra Stati che consentono a Israele qualsiasi atto a salvaguardia del proprio Popolo. 

Per inciso, è lampante il doppio standard adottato dai media mainstream per valutare e riportare i gravi crimini che avvengono in prima linea e nei Territori occupati.  

Quando – in un recente passato – mi capitò di documentare nella Striscia di Gaza e nel sud del Libano crimini di guerra compiuti da reparti dell’esercito israeliano, mi fu davvero  difficile pubblicare i miei reportage pur essendo scrupolosamente circostanziati e documentati da eloquenti immagini. Scoprii che esistono accordi ufficiali redatti dopo il 1948 tra lo Stato d’Israele e tantissimi altri Stati tra cui l’Italia e la Germania, che impongono una sorta di censura a priori di qualsiasi notizia che possa nuocere allo Stato d’Israele. Ne ebbi una conferma ufficiale anche dal sindacato dei giornalisti tedeschi che mi spiegarono quanto ogni argomento che tocca Israele sia considerato “sensibile”. Figuriamoci se si parla di crimini di guerra. E’ come se a causa della Shoah, lo Stato d’Israele avesse una sorta di “licenza d’uccidere” in qualsiasi situazione sia giudicata opportuna senza neppure attenersi alle leggi del diritto internazionale.

Il ronzio dei droni nei cieli e nelle orecchie palestinesi

Zanana (زنانة) è un termine arabo che indica il ronzio incessante dei droni nei cieli palestinesi. Un’interferenza continua, logorante, che disturba le dirette social, i video di chi documenta ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania e la stessa vita di ogni abitante palestinese che vive sotto la costante oppressione dell’occupazione militare israeliana.

Questo ronzio incessante non é una novità. I droni sono comparsi nei cieli sopra Gaza dal 2000 e, in anni più recenti, anche in Cisgiordania. Come tutte le cose che vessano la popolazione palestinese, è considerato un tabù, una cosa che va accettata per forza ma che tutti sanno quali profondi traumi provochi in tutta la popolazione e specialmente nei bambini che ne sono realmente ossessionati. I giornali non ne parlano ma esistono studi clinici, pubblicazioni scientifiche di chiara fama. E poi ci sono i report ufficiali di Ong come Save the Children, Unicef e Medici senza Frontiere.

L’impatto psicologico dei droni uccide la voglia di vivere. Il ronzio continuo di droni per giorni senza sosta devasta la popolazione di Gaza, in particolare bambini, parenti delle vittime, feriti, anziani e donne. Tutti si sentono come se fossero nell’obiettivo di un cecchino. In generale, le misure punitive collettive israeliane contro la popolazione di Gaza hanno causato loro molti problemi psichiatrici per i quali non c’è rimedio perchè da Gaza NON SI FUGGE. 

Secondo il Dott. Ahmad Abu Tawaheen del Centro di Salute Mentale di Gaza, circa il 33% dei casi trattati presso il Centro soffre di gravi disturbi legati allo stress da bomba e agli attacchi e ai rumori dei droni.
I bambini sono tra le vittime più gravi. Il continuo e rumoroso volo in aria e la paura di un attacco inaspettato portano a traumi psicologici e a rivivere traumi precedenti. Rappresentano una sorta di tortura continua che non ti lascia dormire. Mohammad Barakat, un palestinese di Gaza, spiega che “i bambini palestinesi riconoscono la differenza tra il rumore di un aereo da guerra F-15
e il rumore causato da droni armati di missili e droni di sorveglianza. Siamo arrivati a questo punto. Questa guerra ha distrutto intere generazioni e i traumi resteranno per sempre. Tutto questo è disumano”.

La ricerca del Gaza Community Mental Health Program ha rilevato che nel 2013 circa il 91% dei bambini di Gaza soffriva di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) da moderato a grave.
Om Omar, madre di tre figli, ha dichiarato a un giornalista di Al Jazeera che il rumore prodotto dagli “zanana” lascia i suoi figli pieni di paura e terrore, e continuano a chiederle quando tutto questo finirà. Le scuole sono state distrutte e quelle del programma delle Nazioni Unite volutamente colpite dai bombardamenti aerei. I bambini vagano alla ricerca di cibo e sono continuamente agitati dai pericoli. 

Nour Balosha racconta al medico di MSF “[il drone] terrorizza la mia bambina. Quando sente il ronzio del drone, piange forte e a volte scoppia in ondate di risate. Sembra fuori controllo”. Deena Waled, madre di due figli, afferma: “I miei figli pensano continuamente alla guerra e alla distruzione. Viviamo tra le macerie. Quando i bimbi sentono i droni, piangono e perdono la capacità di concentrarsi. Trovo difficile farli addormentare. Ci metto molto tempo. E spesso si svegliano di soprassalto nella notte con urla improvvise e non trattengono la pipì. Siamo disperati perché qui non c’è assistenza medica né medicine adeguate e soprattutto non sappiamo fino a quando continuerà questo inferno”.

Da quando seguo la tragica occupazione dei territori palestinesi (Intifada 1987) ricordo che i soldati di IDF sono violenti coi bambini. Addestrati (uomini e donne) alla violenza per incutere paura anche in bambini in tenera età. Certe volte li bloccano ai checkpoint mentre vanno o tornano da scuola coi loro zainetti e i bambini vengono spesso picchiati senza motivo. Se per caso ragazzi tirano sassi contro i veicoli militari, i soldati li arrestano. Personalmente ho potuto documentare il modus operandi di giovani cecchini dell’IDF nella località di Rafah nell’ottobre 2018 durante la “Marcia del Ritorno”. Manifestanti palestinesi lanciavano pietre contro mezzi dell’IDF o verso gruppi di soldati troppo lontani per essere raggiunti dalle pietre. Malgrado i soldati di IDF non fossero in pericolo, alcuni cecchini sparavano precisi colpi contro i manifestanti con l’intento di uccidere. Come se sparassero a delle cose, a delle sagome. I soldati sembrava si divertissero. Otto bambini furono colpiti a morte sotto i miei occhi. Morirono anche alcuni paramedici della Mezza Luna Rossa che soccorrevano i feriti. Nella Striscia di Gaza, in quei mesi drammatici e sanguinosi, 234 palestinesi furono uccisi e 33mila feriti più o meno gravemente. 

Lo affermo in qualità di testimone oculare in quanto ho la sensazione che l’opinione pubblica non comprenda la lunga e dolorosa oppressione subita dal popolo palestinese in questi decenni. Tutto viene condensato e manipolato dai media come se gli scontri fossero iniziati solo dopo i fatti del 7 ottobre 2023. Le narrazioni giornalistiche sono chiaramente manipolate per far sempre apparire Israele come la vittima. E questo è davvero assurdo se consideri la distruzione sistematica, il sadismo con cui sono trattati i palestinesi e questa estenuante deportazione di migliaia di persone sofferenti da nord a sud, da un campo profughi ad un altro con l’incubo di essere deportati con la forza bruta al di fuori dei confini, nei Paesi confinanti.

Molte tensioni che si riverberano in tutta l’area mediorientale sono direttamente legate alla mancata soluzione della “questione palestinese”. L’ipotesi dei due Stati, tanto caldeggiata ai tempi degli Accordi di Oslo (1993) e durante il Summit di Camp David (2000) resta solo un sogno.

Desidero rendere un sincero omaggio a tutti/e i giornalisti palestinesi della Striscia che vivono e lavorano ogni giorno con l’angosciante preoccupazione che non arrivi un domani. A mio avviso, i reporter gazawi sono i veri eroi del nostro tempo, a cui dobbiamo la documentazione di tutti i crimini che  avvengono nella Striscia e non solo. 

Ogni loro movimento è monitorato e non sono mai al sicuro. Soffrono la fame e la sete come tutti gli altri. Sono i continuo movimento e il più delle volte non dormono a causa dei bombardamenti o degli incubi legati allo stress post-traumatico. Ognuno di loro indossa un giubbotto anti-proiettile che riporta la scritta PRESS ma proprio per questo diventano un target.

E per finire uno sguardo all’Ukraina. Con la possibile riduzione della presenza militare statunitense in Europa, alcuni dei più ferventi sostenitori di Kiev (UK, Francia, Germania, Polonia) suggeriscono di considerare l’esercito ucraino come un elemento chiave per la sicurezza del continente europeo. La sua recente esperienza sul campo di battaglia nello scontro con l’esercito russo, l’adozione di tecnologie avanzate fornite da Israele e la collaborazione con l’Ue, rendono l’Ucraina un ottimo partner strategico. E’ lungo i suoi confini che si sviluppa la nuova Guerra Fredda.

Ma non bisogna dimenticare i progressi della Russia. Nella regione di Kursk, l’esercito russo ha utilizzato fin dallo scorso anno droni Vandal che utilizzano cavi in fibra ottica anziché connessioni radio. È una tecnologia che li rende del tutto immuni alle contromisure elettroniche. E poi non si può non tener conto del vantaggio della tecnologia russa nell’ambito spaziale. In questo settore, Mosca sta investendo tantissimo perché la guerra si combatterà anche nello spazio.

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