La prigione della STASI a Berlino Est
Raggiungere la prigione della Stasi a Hohenschonhausen non è cosa facile per un turista che arriva a Berlino. Sebbene sia entrato a far parte del patrimonio storico della città non ci sono particolari richiami che pubblicizzino le visite (gratuite) nei luoghi in cui i servizi segreti della Germania dell’Est torturavano psicologicamente i dissidenti.
Ne vengo così a conoscenza per vie indirette. In una libreria del vecchio quartiere di Charlottenburg (all’Ovest) vedo esposto “Gomorra” di Roberto Saviano nell’edizione in tedesco.
A fianco al libro-denuncia sulla mafia italiana leggo “Die Taeter sind unter uns” , “I criminali sono in mezzo a noi”. Autore del libro è Hubertus Knabe, direttore del carcere di Hohenschonhausen. In questo inferno, situato a circa mezz’ora dal centro città, è stata girata la prima scena del film “Le vite degli altri”. Suppongo che la stazione centrale dei treni, tra le più all’avanguardia d’Europa, potrebbe avere qualche punto informazioni sulla visita alla prigione della Stasi; non è così.
Ai tempi del Muro, coloro che vivevano nei quartieri intorno alle carceri, non avevano la minima idea di cosa succedesse dentro quel mastodontico complesso situato sulla Gensler Strasse. Una guida turistica australiana è impegnata con un gruppo di americani a visitare i piani della stazione e la mia richiesta di informazioni la coglie impreparata. Decido di prendere un taxi. L’autista, un berlinese acquisito con origini bavaresi mi conferma la sensazione che i cittadini siano poco informati sull’argomento. Forse non interessa più a nessuno. O si vuole dimenticare.
Il carcere di Hohenschonhausen è un edificio militare dai toni cupi e severi. Mi inserisco in un gruppo di turisti stranieri in attesa della guida. Il nostro accompagnatore, si chiama Gilbert Florian, ha circa 50 anni ed è un ex dissidente. Almeno così lo definirono un tempo gli uomini della Stasi. Sono proprio loro, gli ex internati che conducono i gruppi lungo i corridoi della prigione raccontando fatti generali alternati a esperienze personali.
“Era l’anno 1983 e mi era stato chiesto da alcuni amici di realizzare un reportage sui gruppi punk di Berlino Est per raccontare il loro stile di vita, le loro convinzioni – racconta Florian – Mi ero appassionato molto alla vicenda. Per questi ragazzi, essere dei punk, non significava soltanto seguire una moda occidentale “cool” ma era l’espressione di una precisa consapevolezza di sé, era qualcosa di molto profondo e consistente, era il desiderio di affermare il valore di sé dentro un sistema che lo sviliva. Dopo un anno in cui, a mia insaputa, venivo controllato, mi arrestarono. Mi infilarono dentro un furgoncino e mi lasciarono al buio per tutto il tempo del viaggio”.
La strategia era di far perdere subito il senso d’orientamento alla vittima. Dalle finestre del carcere non si riusciva a vedere nulla. Si era completamente fuori da mondo, non era possible nemmeno socializzare con i compagni. Ogni persona, racconta Florian, aveva un tutor, il quale inizialmente sembrava gentile. In realtà il fine di questa cortesia era di riuscire a estrapolare più informazioni possibili duranti I lunghi interrogatori.
“Il mio tutor – aggiunge la guida – raccontava della sua famiglia, mi procurava dei libri che non avevano nulla a che vedere il carcere, parlavamo di arte e cultura”.
Gli altri ufficiali invece erano come dei robot educati a un “sano odio”.
“Per sette mesi il mio tutor ha insistito tenacemente affinché io ammettessi di aver assunto comportamenti antisocialisti che danneggiavano gli interessi della Ddr. Ma siccome questo non si poteva dimostrare con fatti espliciti, (mi ero limitato ad intervistare dei gruppi punk) decisi di scrivere una relazione raccogliendo una serie di passaggi della mia biografia considerati “misteriosi”; in realtà erano fatti irrilevanti. Questa relazione sarebbe finita in tribunale per il processo. Subito dopo la chiusura della fase istruttoria le sue carinerie si interruppero improvvisamente. Niente te al limone, niente più libri”.
“Mi vennero rinfacciate tutta una serie di dichiarazioni che io avevo semplicemente riportato nel mio reportage. Iniziava un vero e proprio inferno. Lothar de Maiziere, che divenne in seguito il mio difensore, mi avrebbe spiegato che secondo il diritto della Ddr non importava nulla se un cittadino urlasse ad AlexanderPlatz “Erich Honeker è un maiale”, o “Il mio vicino ha detto che Honecker è un maiale. La pena in entrambi i casi sarebbe stata la stessa.”
E mentre Florian racconta camminiamo lunghi i bui corridori del carcere. Ci indica una cella in cui veniva rinchiuso chi manifestava sintomi di pazzia e disperazione. Lì avrebbe potuto sfogarsi e calmarsi in modo da poter affrontare l’ennesimo ed infinito interrogatorio. In una via di Berlino è una struttura in cui è appeso un catino d’acqua gelida; è una sorta di applicazione del waterboarding. In un’altra il detenuto veniva lasciato riposare e controllato ininterrottamente dal buco della serratura. A fianco del tavolino un water da cui usciva un odore sgradevole che scacciava l’appetito del detenuto.
Tra gli sguardi impressionati dei turisti, due occhi blu compassionevoli chiedono:
“Ma lei come ha fatto a resistere?”
E Florian:
“In quei momenti chiudevo gli occhi e cercavo di non pensare a nulla, cercavo di dimenticare che esistevo, mi annullavo”.
Una signora:
“E come riesce a spiegare tutti i giorni ai turisti le torture che ha subito?”
Florian:
“Ci tengo che tutti sappiano cosa è stato compiuto in questo luogo. Le chiavi del carcere ce le ho io ora. Posso entrare e uscire quando voglio e questa è la mia rivincita. Hanno fallito”.
E a proposito del tutor, che fine ha fatto? L’hai mai rivisto? E’ cambiato?
“Il “Major”? L’ho incontrato per caso successivamente alla caduta del Muro. Era il 1991 e mi trovavo nei grandi magazzini Kaufhof ad Alexander Platz. Stavo salendo le scale mobile e lui dall’altra parte stava scendendo. Mi batteva il cuore forte, non avevo paura di lui, oramai non poteva fare nulla, ma ero emozionato. Mi chiedevo se si fosse pentito e se un giorno fossi riuscito ad intervistarlo (allora stavo scrivendo un libro).
Vedo che si avvicina, mi riconosce subito. Mi porge le sue più sentite scuse per tutto quello compiuto. Si vergogna ed è sincero. Mi promette che si renderà disponibile per darmi tutte le informazioni che desidero sui documenti del mio arresto”.
“Vede – esclama Florian – il 99% degli ex uomini della Stasi credono di aver fatto la cosa giusta, perché hanno obbedito al loro dovere. Sono rimasti ottusi e non hanno né la volontà né la forza di abbandonare le grandi menzogne, compagne di viaggio di una vita. Sono dei poveretti, dei vecchi uomini insignificanti”.
More info: www.stiftung-hsh.de
Annamaria
9 Ottobre 2022 il 11:24 AM
“a XX/7 con riconoscenza”.
Ci saranno stati nella Stasi, in quel grigiore disumanizzante, colori di vita e di emozioni da cui restò inebriato un controllore di regime come Wiesler?
“Le vite degli altri” è un film di grande spessore …l qui ci sono le stanze di detenzione,la macchina da scrivere e il telefono…
Grazie Livio …