Livio Senigalliesi
Photoreporter

Kurdistan 1991

Cronaca

KURDI, UN POPOLO SENZA STATO

Brano tratto dal libro “Diario dal Fronte” di Livio Senigalliesi

Durante la primavera del 1991 nel nord dell’Iraq era in atto la ‘soluzione finale’ nei confronti del popolo curdo. Già nel 1988 a Kalabja, l’esercito iracheno aveva usato armi chimiche per sterminare la popolazione civile di interi villaggi curdi. Un vero e proprio tentativo di genocidio. 

Le pesanti condanne dell’opinione pubblica internazionale e delle Nazioni Unite non avevano scalfito il potere di Saddam. Era protetto da Washington in funzione anti-Khomeini e quindi gli si perdonavano le sue ‘intemperanze’ nelle questioni interne.
Ma il Rais di Baghdad, nell’agosto 1990, fece il passo più lungo della gamba e venne scritto nella lista nera. Dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno, gli Stati Uniti avevano lanciato ultimatum sempre più pressanti a Saddam – a salvaguardia degli interessi petroliferi delle ‘Sette Sorelle’ (1) – finché si giunse all’intervento armato di una Coalizione Internazionale di 35 Paesi targata USA.


Il 17 gennaio 1991, dopo la scadenza dell’ultimatum dell’ONU alle 2:38 del mattino ha inizio l’operazione Desert Storm (Tempesta del deserto), la più imponente azione militare alleata dal 1945. 

Era chiaro si trattasse di una guerra per il controllo del mercato del petrolio, materia prima strategica per gli USA e le altre potenze occidentali.

In questo grave contesto di escalation militare, il Rais colse l’occasione per una feroce resa dei conti contro i nemici interni, Sciiti e Curdi, gruppi etnici che si opponevano storicamente al potere della casta sunnita.


I confini iracheni erano blindati. La guerra si era trasformata in un evento mediatico. La CNN di Peter Arnett trasmetteva in esclusiva dal tetto dell’Hoter Rashid di Baghdad le scie dei traccianti della contraerea e la guerra si trasformava in un video-game.
Tutto si doveva svolgere lontano dagli occhi indiscreti di giornalisti e telecamere. E la cosa faceva comodo sia agli USA che a Saddam.


Assistevamo inermi alla realizzazione della dottrina Bush che sanciva il ‘Nuovo Ordine Mondiale’. Trionfava la disinformazione e la propaganda. 

Il mondo si commuoveva di fronte alle false immagini del cormorano agonizzante nel petrolio, immagini di repertorio relative alle conseguenze dell’affondamento in Alaska il 24 marzo1989 della petroliera Exxon Valdez. 

I massacri di soldati e di civili diventavano un ‘effetto collaterale’. E torme di giornalisti embedded si trasformavano nell’Ufficio stampa del JIB, Joint Information Bureau delle Forze Alleate. Venne formato un pool di giornalisti aggregati ai reparti operativi della coalizione a guida USA: erano in 100 di cui 96 statunitensi e 4 sauditi. Tutti gli altri non potevano vedere niente e si dovevano accontentare di dispacci censurati in cui venivano omessi tutti i dati sensibili.

Nel deserto, superato il confine iracheno, gli americani sperimentavano nuove armi di distruzione di massa sempre più efficaci e devastanti. 

Lorenzo Bianchi, reporter di guerra di grande esperienza, stanco delle limitazioni poste dal JIB di Dhahran, aveva deciso di andare sul campo con il collega Giovanni Porzio, aggirando tutti i posti di blocco che impedivano ai Media di avvicinarsi alla zona delle operazioni militari.

Lorenzo racconta, a distanza di anni, scene di inaudita violenza che non potrà mai dimenticare: caterpillar della coalizione che seppellivano vivi nelle trincee interi reparti iracheni, colonne infinite di mezzi in fuga lungo la strada per Bassora, in cui ogni soldato iracheno era morto senza apparenti ferite. Non c’era dispersione di sangue. Avevano la bocca aperta e gli occhi fuori dalle orbite. I mezzi su cui viaggiavano erano intatti.

Erano gli effetti di un’arma sconosciuta che annienta ogni forma vivente lasciando intatti automezzi civili e militari. Si tratta della bomba FAE, full air explosive bomb, che esplode sopra l’obiettivo risucchiando tutto l’ossigeno presente nel raggio di alcuni chilometri. 

Una sorta di “mini-atomica” di cui danno conferma anche tre giornalisti statunitensi distaccati presso una base aerea USA in Arabia Saudita (2).


Per evitare il carrozzone dei Media mainstream, avevo scelto Amman come base operativa con l’intento di muovermi lungo le frontiere con i Paesi confinanti alla ricerca di storie di profughi in fuga dalla guerra.

Anche la Giordania stava diventando una polveriera. I missili scud iracheni sorvolavano il cielo di Amman diretti verso Israele. Si diffondeva la paura che Saddam usasse armi chimiche ed il Press Center ci aveva distribuito un set NBC con maschera anti-gas e fiale contro i gas nervini.

Gruppi islamici radicali organizzavano manifestazioni contro gli USA e tutti gli occidentali erano a rischio. Più di una volta avevo rischiato il linciaggio e il tentativo di raggiungere i campi profughi nella terra-di-nessuno tra Giordania e Iraq si era concluso nel deserto con l’arresto nelle prigioni di Ruwaished. Tre giorni di prigione in attesa che decidessero se fossi una spia o un vero reporter.


All’inizio di marzo del 1991, appena giunsero le prime notizie dell’esodo di migliaia di curdi verso le montagne al confine tra Iraq e Turchia, partii immediatamente per il Kurdistan. Al mio fianco Mario Boccia, grande fotografo e ottimo compagno di viaggio.
La remota provincia sud-orientale della Turchia era già normalmente in stato di assedio a causa degli scontri tra PKK ed esercito turco. Con l’arrivo dei profughi curdi la situazione precipitava.
Le strade per raggiungere la zona erano bloccate da continui checkpoint militari. Giunti a Diyarbakır decidemmo di dividerci per coprire meglio il lungo confine interessato dalla crisi umanitaria. Mario prese la direzione di Isikveren promettendoci di incontrarci nuovamente a Diyarbakır. Io, dopo due giorni di viaggio – toccando i santuari della cultura curda come il Lago di Van – arrivai alla base delle alte montagne nella zona di Cucurka, provincia di Hakkari, al confine tra Iran, Iraq e Turchia.


Abbandonato il taxi in mezzo al caos di uomini e mezzi che ammassavano aiuti umanitari nella zona di confine, montai sul cassone di un trattore che portava pane e farina ai rifugiati in quota. Più si saliva e maggiore era la tensione. Soldati turchi in assetto da guerra creavano una sorta di cintura di sicurezza affinché i profughi non scendessero a valle.
La zona era davvero inospitale e dalle cime che superano i 4.000 metri soffiava un vento gelido. Mi rendevo conto di non avere un equipaggiamento adeguato ma ormai non potevo più tornare indietro. Il trattore arrancava lungo un sentiero fangoso e più volte aveva rischiato di ribaltarsi. Arrivati alla sommità, rimasi senza fiato per la scena apocalittica che si presentava ai miei occhi. Migliaia di tende improvvisate riempivano la vallata pietrosa dove passa il confine con l’inferno. Una colonna interminabile di derelitti marciava ansimando nel fango, portando sulle spalle i loro pochi averi: coperte, pentole e legna da ardere. I più anziani venivano trasportati a dorso d’asino o su barelle improvvisate. Gruppi di uomini portavano a braccia i cadaveri di chi era morto lungo il tragitto per gli stenti o per le ferite. Un peshmerga mi venne incontro con il cadavere del suo bambino avvolto in un lenzuolo bianco e me lo pose tra le braccia. Rimasi impietrito e commosso dal gesto.

Era un modo di rendermi partecipe del suo lutto. Il volto dell’uomo era terreo, distrutto dal dolore e dalla fatica di giorni di marce forzate. Tutt’intorno si alzava il fumo di mille piccoli fuochi. Un’umanità afflitta si preparava a passare la prima notte nella terra-di-nessuno concessa dal governo turco. Tra i pianti e le preghiere si scavavano tombe per tumulare i morti. Poi il buio e il silenzio. Calata la notte, trovai rifugio nella tenda improvvisata di un peshmerga e della sua famiglia. 

Raccolsero un pò di neve e la scaldarono per preparare il thè. Ci scambiavamo sguardi alla luce di un piccolo fuoco. Provavo emozioni indescrivibili e cercavo a gesti di esprimere loro la mia solidarietà. I bambini erano lividi dal freddo. Avvicinavano i loro piedi congelati al fuoco. Erano fuggiti con quello che avevano addosso. Stravolti dalla stanchezza si addormentarono.
Io invece non chiusi occhio e all’alba iniziai a vagare di tenda in tenda stringendo mani e scattando qualche foto. Ma la luce era troppo bassa.


La presenza dei soldati turchi era sempre più pressante. I profughi non dovevano scendere dalle montagne. I Curdi in Turchia non erano i benvenuti. Il governo di Ankara aveva concesso solo una buffer-zone ma nulla di più. 

Le rare distribuzioni di cibo ed i lanci di aiuti umanitari da parte di aerei dell’aviazione USA scatenavano furibonde risse tra le migliaia di rifugiati, accomunati dallo stesso destino ma disposti ad uccidersi per un pezzo di pane o un sacco di farina. 

Durante una di queste caotiche situazioni, scattai una delle foto più sconvolgenti della mia vita. Decine di uomini, dando l’assalto ad un carico di aiuti, si massacrarono e si batterono come un branco di lupi per la conquista di un pugno di riso o un barattolo di latte condensato. Mentre fissavo queste immagini sulla pellicola, alcuni soldati turchi aprirono il fuoco sui profughi per sedare la rissa. Fu una carneficina. Ricordo tuttora le esplosioni ravvicinate e le urla delle vittime. Ma le pallottole non fermavano la frenesia degli affamati. Era un caos totale.


Un ufficiale turco, che aveva notato la mia presenza, si avvicinò con fare minaccioso ed estratta la pistola me la puntò alla testa. Strattonandomi mi accompagnò per due chilometri fino all’inizio del sentiero che portava a valle. La mia vita era a rischio, avevo visto troppo. Per fortuna non sparò e non mi sequestrò le pellicole. Ero salvo ma provato. Tornai a malincuore a Diyarbakır dove ritrovai Mario. Ci scambiammo abbracci e racconti delle cose terribili che avevamo fotografato. Il nostro reportage fu più volte pubblicato e servì a sensibilizzare il pubblico riguardo una tragedia che si svolgeva ai margini di un conflitto sotto gli occhi di tutti.

Seguirono lunghi mesi di agonia tra i 70.000 disperati di Cucurka. Decimati dalla fame e dalle malattie, alla fine del mese di aprile, con la fine delle ostilità, i profughi curdi poterono tornare nei loro villaggi. Da allora molto tempo è passato. Alla fine della seconda guerra del Golfo (2003) il Rais è stato ucciso ed i curdi iracheni godono di una larga autonomia nel nord del Paese. 

Dal 2012, durante il lungo e sanguinoso conflitto siriano, l’esercito curdo ha combattuto aspramente contro l’ISIS e per difendere il Rojava ma a tutt’oggi il riconoscimento di una terra gli viene negato dagli ex alleati USA  e tutta l’area del Kurdistan è sotto la pressione militare della Turchia che continua la sua criminale guerra contro il popolo curdo.

Note:
(1) “Sette sorelle”: La locuzione sette sorelle venne coniata da Enrico Mattei, dopo la nomina a Commissario liquidatore dell’AGIP nel 1945, per indicare le compagnie petrolifere che avevano il dominio del mercato mondiale del greggio: le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California (Socal), Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum (BP).
(2) Tim Phelps del quotidiano “Newsday”, Bill Dowell del settimanale “Time” e Gilles Trequesser dell’agenzia Reuters confermano l’uso degli ordigni FAE.

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