Livio Senigalliesi
Photoreporter

Polesia

Inchiesta

Nel 2018 ricevetti un incarico prestigioso dall’Ufficio culturale del Goethe Institut. Collaboro con questa grande istituzione del governo tedesco dai tempi della caduta del muro di Berlino (1989).
Avendo documentato approfonditamente quell’avvenimento epocale, il Goethe Institut mi chiese di poter cedere i diritti delle fotografie più particolari ed esclusive per una mostra itinerante che ha fatto il giro del mondo. Fu portata in ben 900 sedi espositive.
Specialmente le fotografie che avevo scattato nella DDR e nelle zone minerarie del sud hanno tuttora un valore storico incalcolabile. Sono un documento unico in quanto essendo zona d’occupazione sovietica era vietato scattare fotografie.
E così iniziò una collaborazione che giunge fine ad oggi. L’incarico ricevuto nel 2018 mi assegnava un reportage davvero speciale. Documentare una popolazione della Bielorussia totalmente sconosciuta. Sembra strano ma a sole due ore da Milano si estende un’area selvaggia e remota che nessuno aveva mai documentato e dove vivono persone chiuse nel loro mondo.
La Polesia è una regione paludosa vasta come l’Italia settentionale completamente tagliata fuori dalla stessa Bielorussia.
Quasi un non-luogo che non esiste sulla mappa e di cui non si trovano notizie nel web.
Le pratiche burocratiche ed il rilascio del visto speciale richiese molto tempo ma alla fine presi un volo per Minsk. Fui accreditato in qualità di antropologo e non come giornalista per non creare sospetti.

Le Paludi del Prypjat sono una vasta zona umida situata lungo le rive del fiume omonimo, a cavallo del confine ucraino-bielorusso. Le acque risultano pesantemente radioattive a causa dell’incidente occorso nell’aprile del 1986. Sono conosciute anche col nome di “Paludi di Pinsk”.
Queste ampie zone umide si estendono in un territorio compreso tra Bielorussia meridionale ed Ucraina nord-occidentale e occupano una superficie di 98.400 km².
Esse si estendono per 480 km da ovest ad est e per 140 km da nord a sud. La densità di popolazione è bassissima e i pochi villaggi ancora abitati sono dispersi tra la natura selvaggia. Non esiste una mappa ed è necessario muoversi con una guida locale perchè la ricerca dei piccoli villaggi può richiedere settimane. Ci si affida spesso al caso perchè nessuno sa se le persone sono ancora vive. Non esiste modo di comunicare e non c’è copertura telefonica.
Tale isolamento ha mantenuto fino ai nostri giorni una assoluta originalità di usi e costumi. Anche la lingua usata dagli abitanti del luogo differisce dal bielorusso. Viene detta “tresianka”, un misto di russo, bielorusso, lituano e polacco che affonda le sue origini nella notte dei tempi.
La folta vegetazione – rimasta inalterata nei secoli – è intervallata da paludi, stagni e rami secondari del Prypjat.
Durante il periodo invernale, i corsi d’acqua si tramutano in uno spesso strato di ghiaccio e tutti i villaggi restano isolati. La gente resta chiusa per mesi nella propria isba vivendo delle provviste accantonate d’estate. Lo strato di neve può superare gli 8 metri ed è impossibile uscire di casa.

In caso di necessità o di malattia non c’è rimedio. Non ci sono medici nè ospedali. Le scuole sono state chiuse 50 anni fa a causa della mancanza di bambini.
Con lo scioglimento delle nevi in primavera e con le piogge il livello delle acque aumenta considerevolmente causando spesso alluvioni e allagamenti.
Gli abitanti della regione, chiamati ‘Paleshuki’, hanno una grande capacità di resistenza e adattamento. Conducono una vita d’altri tempi, legati alla natura, al corso delle stagioni e mantengono modi di vivere davvero arcaici. Non esistono documenti scritti nè libri della loro storia. Le tradizioni si tramandano oralmente per via matrilineare.
Andare alla loro scoperta è stata una vera e propria avventura che mi ha portato alla conoscenza di persone straordinarie, ricche di umanità e di sentimenti non comuni.
I loro ritmi di vita sono così diversi da quelli tipici della società moderna e industrializzata! Questa ricerca antropologica mi ha permesso di raccogliere rare testimonianze (fotografie, storie, filmati) che sono un bene da diffondere e valorizzare.

Sulla strada per Pinsk
Lasciata alle spalle la capitale Minsk, percorriamo decine di chilometri di campagna coltivata a colza e grano.
Il territorio é pianeggiante e lo sguardo si perde all’infinito. Alle zone agricole si alternano fitte foreste che arrivano fino al limite della carreggiata.
Qualche timido capriolo fa capolino tra i tronchi di conifere. Il caldo sole estivo rende il viaggio piacevole e stento a immaginarmi quanto sia diverso il panorama durante l’inverno quando “la lunga notte” e la tormenta avvolgono ogni cosa.
Il tempo trascorre gradevolmente parlando con Maxim – valente guida ed interprete – della Storia e delle origini linguistiche della Polesya (Palessie in bielorusso).
Quest’ampia zona geografica ha fatto parte fino al 1795 del Regno di Lituania. Poi le popolazioni locali passarono sotto il dominio dei russi e dei polacchi (1921-1939).
Dall’estate del 1941 fino al 1944 la Bielorussia subì l’occupazione delle truppe del Terzo Reich e buona parte dei giovani vennero internati nei lager in Germania come forza lavoro. Anziani e bambini vennero sterminati ma gruppi di partigiani si opposero ai soldati della Wehrmacht approfittando della conoscenza della palude che era un terreno perfetto per rapide incursioni e allo stesso tempo dava facile riparo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale tutta la zona divenne parte dell’URSS ma rimase pur sempre isolata. I contadini organizzati in aziende collettive continuarono a vivere di pesca e agricoltura.
Questo per quanto riguarda la Storia più recente.
Ma fino a quando dobbiamo risalire per comprendere le matrici sociali e linguistiche di queste popolazioni?
Maxim sfodera tutta la sua cultura e dice:
“Le prime tracce della lingua palessiana appaiono negli scritti del poeta Franz Savic nel XIX° secolo. Ma le vere matrici slave delle lingue locali – parlate ancora da piccole minoranze – si devono alle tribù arcaiche che popolarono queste enormi pianure: buzhany, dregavicy, drauliany, yatsviaghi (una tribù baltica che popolò l’attuale territorio bielorusso).
La loro lingua fu un punto di passaggio tra le lingue baltiche e quelle slave parlate in queste regioni.”


Rapito da questi interessanti riferimenti storici, scorrono in fretta 300 chilometri fino a quando prendiamo una deviazione che ci porta al villaggio Vialikaya Hats (Grande Palude).
E’ il luogo d’origine degli avi di Maxim.
Grazie a questo suo imprinting, Maxim è la guida ideale per questo viaggio di ricerca che si prefigge di raccogliere le rare testimonianze di un mondo a noi sconosciuto ed in via di estinzione.
Del vecchio villaggio, considerato la ‘porta della Polesia’, rimane ben poco.
Visitiamo il cimitero con le antiche croci ortodosse e da questo panorama deserto e silenzioso, spuntano come d’incanto due anziane contadine. Ci guardano con sorpresa. Maxim le avvicina e parlano in lingua locale. Katsiaryna Konzum (73) e Basulay Marija (75) sono le ultime due abitanti del villaggio e sono piacevolmente sorprese dal nostro arrivo.
Katsiaryna e Marija raccontano: “In questo villaggio c’erano 600 contadini con le loro famiglie.
Lavoravamo tutti nel kolchoz (proprietà agricola collettiva).
Col passare degli anni, tutti i giovani se ne sono andati a cercare fortuna in Russia e i più vecchi sono morti. Siamo rimaste solo noi ma non ci pieghiamo. Continuiamo a tagliare foraggio per le mucche e piantiamo il grano per fare il pane. Siamo forti. Ci facciamo compagnia e resistiamo”
.

Passeggiando in Piazza Lenin
Arriviamo a Pinsk verso il tramonto. E’ una bella cittadina con palazzi in stile barocco che ne fanno uno dei centri più importanti della Polesia.
Attirati dalle musiche e dal coro delle canzoni popolari ci avviciniamo al palco allestito in Piazza Lenin. Quattro giovani ballerine in abito tradizionale sono felici di posare per il fotografo straniero. Violeta, Veronica, Marija e Mazdina sfoggiano un bellissimo sorriso.
Fare parte del balletto folkloristico della Polesia le riempie di orgoglio e mi rendo conto che in questo angolo di mondo le tradizioni popolari creano un forte legame sociale tra le generazioni.
Lì vicino, in un sontuoso palazzo – un tempo sede del Collegio dei Gesuiti – visitiamo il Museo etnografico accompagnati da Svetlana, una signora che conosce ogni reperto e ne racconta con passione la storia.
Si inizia con la ricostruzione dell’interno di un’isba – la tradizionale casa contadina – composta da due vani principali: uno in cui viveva la famiglia e l’altro adibito a stalla e magazzino.
I pavimenti erano costituiti da un intreccio di paglia. Molta importanza assumono i vestiti ed i tessuti tradizionali tutti prodotti a mano. I reperti risalgono al 1920.
Spiccano i ricami rossi a decorare giacche camicie e gonne improntate alla semplicità.
L’elemento essenziale dell’abito maschile era una fascia che veniva indossata a guisa di cintura e che stringeva al corpo la “kalita”, un portafoglio usato dal capo-famiglia per contenere il denaro. Era un simbolo di potere. Per ripararsi dal freddo si indossava un pesante cappotto di lana di pecora detto “Kasuh”. Tipiche dell’area di Pinsk sono le ceramiche prodotte col “Ganciarny”, un tornio di legno a pedale.
La visita al Museo termina con il settore dedicato alla pesca, l’attività tipica dei paleshuki che vivono da sempre tra le acque del fiume ed i canneti della vasta palude.
La loro barca – tuttora in uso – viene detta “ciaika” (gabbiano). E’ fatta di legno, slanciata e a fondo piatto. Numerosi sono gli arnesi usati per intrappolare il pesce nelle lanche del fiume.
Le tradizionali reti sono ora proibite dalle norme volute dalle guardie forestali a tutela dell’integrità del Parco Naturalistico che protegge tutte le specie animali e vegetali a protezione dell’area umida più vasta e integra d’Europa.

Alcuni cenni storici
Le prime tracce documentate della città di Pinsk risalgono al 1097 in alcune cronache del tempo, dove si parla di una cittadina di nome Pinesk appartenente al territorio del Principato di Turov. Data la sua posizione, stretta fra i principati di Galizia-Volinia e Navahrudak, si combattè a lungo per la conquista della città finché nel 1320, venne conquistata dalle forze del Granducato di Lituania.
Nel 1640 la rivolta dei Cosacchi guidati da Bohdan Chmel’nyc’kij arrivò anche a Pinsk, che venne conquistata dai ribelli. Quando i polacchi la ripresero, 24.000 dei suoi abitanti vennero uccisi e 5.000 case vennero date alle fiamme.
Otto anni dopo venne di nuovo distrutta, questa volta dai russi, nel corso della Guerra russo-polacca (1654-1667). I polacchi, guidati da Janusz Radziwi, la riconquistarono con notevole difficoltà. Nel 1793 con la terza spartizione della Polonia, Pinsk entrò a far parte dell’Impero russo. Secondo un censimento russo del 1897 la popolazione cittadina ammontava in quegli anni a 28.400 unità, 21.100 dei quali ebrei.
Dopo la fine della guerra sovietico-polacca la città passò alla Polonia. Sotto il governo di Varsavia venne qui istituito il quartier generale della Flottiglia fluviale Polacca e la popolazione ebraica aumentò al 90% della popolazione cittadina totale.
Durante l’occupazione nazista, durata dal 1941 al 1944, quella che fu una delle più fiorenti comunità giudaiche dell’est Europa venne decimata da feroci eccidi, costretta a vivere in un ghetto e infine completamente cancellata nel giro di pochi mesi nel 1942.

Gli eroi della Polesia
Usciamo da Pinsk e costeggiamo il corso del fiume Pina. Percorriamo per chilometri una strada sterrata e chiediamo ai contadini del luogo se ci siano ancora persone che vivono in villaggi isolati. Ci viene segnalata la frazione Kudrichy, un agglomerato di isbe dove vivono ancora alcune persone circondate dalla palude.
Bisogna proseguire sulla strada piena di buche fino a quando non si trova un cartello e si prende a sinistra. Fino a pochi anni fa la strada non esisteva ed i villaggi erano realmente isolati come un secolo fa. L’unico mezzo di comunicazione era la barca o il cavallo. Le poche strade di collegamento della regione della Polesia sono state costruite negli anni ’90 dopo l’incidente della centrale nucleare di Chernobyl.
Andiamo avanti e la strada diventa un sentiero sempre più stretto circondato dalla vegetazione.
Io e Maxim pensiamo di esserci persi quando tra gli alberi vediamo una vecchia isba.
Proseguiamo a piedi e troviamo due donne intente a coltivare l’orto. Ci sorridono e si avvicinano curiose alla staccionata. Si chiamano Valentina Kolb e Marija Lapushka.
“Da dove venite? E’ tanto tempo che non vediamo stranieri!” dice Valentina.
“Questo è il villaggio Kudrichy. Un tempo eravamo in 200. Lavoravamo e vivevamo d’amore e d’accordo. Ora siamo rimasti in 10. La gente di Pinsk ci chiama “gli eroi” perché siamo gli ultimi a fare questa vita. Siamo i più vecchi e i più legati a questa terra. Quest’isba e la terra dell’orto é l’unica cosa che abbiamo. Siamo poveri ma voi siete i benvenuti” e ci invitano a bere un tè.
Le pareti esterne della casa hanno un bel colore carta da zucchero. L’interno é semplice ma ordinato. Conversiamo piacevolmente e poi ci consigliano di recarci dal capo del villaggio che sicuramente avrà da dirci tante cose interessanti per la nostra ricerca.
Salutiamo e riprendiamo la marcia fino alla prossima isba dove vivono Maknovids Moisiej e la moglie Volga. Lui ha 77 anni, lei 72.
Dopo i proverbiali saluti e la spiegazione dello scopo della nostra presenza, approntiamo la telecamera per registrare un’intervista.
Moisiej dice con orgoglio: “Il giorno in cui sono nato (1941), i nazisti invadevano la Polesia. Mio padre era al fronte. Pinsk bruciava ed io emettevo il primo vagito. Seguì un’infanzia difficile fatta di fame e di paura. Poi nel dopoguerra le cose si sistemarono ed abbiamo vissuto lavorando la terra e allevando mucche e maiali del Kolchoz.
Dopo la fine del Comunismo è andato tutto in malora e adesso ci restano solo le galline ed un cavallo ma ce li facciamo bastare. Viviamo di una piccola pensione e non andremo via di qui.
Restiamo fedeli al nostro nido come le cicogne!”

Moisiej e Volga sono gentili e ospitali e si fanno fotografare volentieri seduti sul divano di casa con la fotografia scattata il giorno del loro matrimonio.

Le parole dell’eremita.
Dormiamo a casa di Oleg Sadovsky, una guardia del Parco Naturalistico che ha restaurato la vecchia isba di famiglia per ricavarne un robusto rifugio per passare il gelido inverno.
Oleg dice: “L’unico modo per far rivivere questo villaggio, destinato all’oblio, è quello di attrarre turisti appassionati di natura. Questa vasta palude é un’oasi unica in Europa, rimasta intatta grazie al secolare isolamento. Voglio continuare a vivere qui con la mia famiglia dando un futuro ai miei figli. Siete i benvenuti!”
La mattina seguente Oleg ci propone un giro in barca tra i canali della palude e ci affida al suo vicino Slava Batujev (63) che usa ancora una vecchia “ciaika” a remi. E’ una giornata ideale per questa escursione. La barca scivola sull’acqua e si sente solo il rumore del remo che entra nell’acqua e il canto degli uccelli.
Slava dice “Questa è una palude in continua trasformazione a causa della presenza di un gran numero di castori. Questi animali, abbattendo alberi e costruendo le loro grosse tane, sono in grado di cambiare il corso del fiume”.
Dopo ore di lenta navigazione, tra la fitta vegetazione, intravvediamo una vecchia isba e accostiamo per vedere se ci abita qualcuno. Sembra tutto decadente e abbandonato ma tra l’erba alta ci viene incontro un vecchio. Sembra un folletto del bosco.
Si copre dalla testa alle ginocchia con un pezzo di plastica per evitare le punture d’insetti e zanzare che qui nella palude sono davvero aggressive.
Anatoly (70) sembra sorpreso e contrariato dalla nostra presenza, come se fossimo due marziani scesi da un’astronave. Quelli del villaggio lo chiamano “l’eremita”. I modi sono rudi e poco accoglienti. “Andate via! Non voglio parlare con nessuno!” urla Anatoly.
Maxim gli parla nel suo dialetto cercando di rassicurarlo e spiegando i nostri buoni propositi.
Dopo un po’ di ritrosie, Anatoly sorride e inizia il suo racconto.
“Mi chiamo Anatoly Makhnavec. Sono nato in questa casa 70 anni fa. Qui ha vissuto mio padre, mio nonno e il nonno di mio nonno. Ora cade tutto a pezzi…guardate il tetto! Non ho più la forza di sistemare le cose e di lavorare come un tempo.”
Le sue mani callose, deformate dall’artrosi, dimostrano quanto sia stata dura la sua vita.
E poi Anatoly riprende con vigore:
“Al tempo dei Soviet c’era giustizia! C’era pane e lavoro per tutti e se uno rubava finiva in carcere a San Pietroburgo! Poi Mosca ci ha imposto le sue regole economiche e dovevamo lavorare come schiavi. Eravamo alla fame. I miei genitori mi mandarono a studiare a Pinsk e mi sono diplomato. Voi mi vedete ridotto come un barbone ma sono una persona rispettabile“.
Anatoly ricorda i tempi del Kolchoz dove si lavorava duro ma ogni anno il 20 novembre si faceva una gran festa con canti e balli popolari. La chiamavamo “Talaka”. Era un momento di ritrovo per tutti i contadini della regione, si festeggiava il raccolto e ci si preparava al lungo inverno.
Poi Anatoly cambia discorso e ci spiega l’etimologia e le radici della parola spasiba (grazie).
Non si dovrebbe dire spasiba ma spasibog che significa ‘Dio ti salvi’.
Ma da cosa il buon Dio ci dovrebbe salvare?
Dall’ingiustizia! Questo si é il vero male dei nostri tempi!
“Con la democrazia non ci sono più regole e ognuno fa come gli pare.
I ricchi sono sempre più ricchi e prepotenti e noi poveri siamo sempre più poveri!”

Anatoly ci stringe la mano e ci augura salute e buon viaggio.
Io e Maxim ricambiamo e torniamo alla ‘ciaika’.
Qualche colpo di remo e riprendiamo la corrente.
Anatoly saluta alzando un braccio e sparisce nella vegetazione.

La figlia del Prypiat
Torniamo sulla terra ferma e ci fermiamo per riordinare le idee nel centro storico di Turau. Il giorno dopo torniamo a navigare infilando canali alla ricerca del villaggio di Pagost, un piccolo agglomerato di isbe bagnato dal fiume Prypiat.
Sbarchiamo e ci avviamo tra l’erba alta verso un’isba. Sulla porte appare un’anziana signora in abiti tradizionali. Kacjarina Panchenja (76anni) sfodera un bel sorriso che mette in evidenza i denti dorati.
La rarità ed il valore della sua testimonianza sta nei suoi antichi saperi tramandati solo attraverso la trasmissione orale delle canzoni e dei riti popolari.
Seduta all’ombra del pergolato, la sua vicina di casa Julia fila il lino con un arcolaio e produce tessuti con un vecchio telaio di legno. Qui tutto é rimasto come una volta e ogni cosa è autoprodotta. Alcuni vicini si avvicinano attirati dalle nostre chiacchiere, parole che hanno rotto il silenzio di quella contrada remota circondata dalla palude. Tutti nutrono un gran rispetto per Kacjarina che dimostra forza e carisma.
“Quando ero giovane, il capo del Kolchoz ha sentito la mia bella voce ed ha voluto che cantassi del coro folkloristico della regione. Dal 1980 sono direttrice artistica e finché la memoria mi aiuta, ricordo e canto 400 canzoni popolari di altri tempi. Me le ha insegnate mia nonna Antonina.
Molte canzoni riguardano la Guerra Patriottica, l’amore, il lavoro nei campi o la vita di palude con i suoi animali”.

E continua raccontando della primavera quando inizia il disgelo, il fango arriva alle ginocchia.
“Allora mettiamo in salvo gli animali e stendiamo le reti per catturare i pesci…e poi aspettiamo con pazienza che le acque si ritirino. Passo tutta l’estate a fare provviste per il lungo inverno”.
Facciamo una passeggiata fuori dal recinto della vecchia isba colorata di blu e giallo e Kacjarina aggiunge: “Questa via si chiama Konsomolska Ulica. Qui abitavano 47 famiglie. Tutte queste case sono vuote o distrutte dalle intemperie. I vecchi sono morti e i giovani sono andati a Turau.
Figli e nipoti non hanno voluto continuare le tradizioni. Qualcuno torna per la ‘Festa d’Estate’…quella che noi chiamiamo ‘Festa dei fiori di felce’. Allora le giovani danzano sulla riva del fiume e lanciano le loro corone di fiori nell’acqua del Prypiat pregando di trovare un marito nel corso dell’anno. Le ragazze guardano le corone di fiori trascinate dalla corrente e sognano di trovare uno sposo tra i giovanotti aitanti che lanciano le loro frecce infuocate verso il sole al tramonto.”
A Kacjarina ed al suo stile di vita è stato dedicato un film dal titolo “La figlia del Prypiat”.

Storia di Hanna
Entriamo a Stolin, una bella cittadina con ampi giardini pubblici, abitata da diecimila persone.
Il simbolo della città é la cicogna ed infatti è comune vedere i grandi nidi sui comignoli delle isbe o in cima ai pali della luce.
Il confine bielorusso-ukraino é a soli 15 chilometri e non mancano i posti di blocco militari.
Le origini del luogo risalgono al XII° secolo. La Storia più recente – quella del XX° secolo – è marchiata a fuoco dallo sterminio della comunità ebraica da parte delle truppe d’occupazione naziste. Qui nel 1942 fu creato un ghetto che raccoglieva più di 7000 ebrei rastrellati nelle città vicine come David-Gorodok. Il ghetto sorgeva in un luogo malsano sulle rive del fiume Bank.
Erano in maggioranza donne vecchi e bambini. La “liquidazione del ghetto” si svolse l’11 settembre 1942. La strage venne eseguita da un reparto di cavalleria della Wehrmacht presso l’aeroporto militare. I corpi delle vittime finirono in una grande fossa comune.
Una toccante testimonianza relativa a questo episodio la potete trovare al seguente link:
http://yahadmap.org/#village/stolin-brest-belarus.468
Qui la gente non dimentica.
Le tracce del secondo conflitto mondiale non a caso affiorano anche dalla testimonianza della signora Hanna Maiseevna che incontriamo nel vicino villaggio di Staryna.
Hanna, classe 1927, è ancora molto lucida ed attiva.
Sta accudendo polli e maiali e ci apre sorridente il cancello invitandoci in casa per una chiacchierata.
L’interno della piccola isba è pieno di fotografie in bianco e nero che testimoniano il suo legame col passato e le vicende famigliari. Hanna racconta: “nel 1941 arrivarono le truppe tedesche e restammo un anno sotto occupazione. Poi nel 1942, all’età di 15 anni, fui deportata in Germania in un campo di lavoro. Ci misero su un treno merci. Era ottobre, faceva tanto freddo.
Dopo alcuni giorni raggiungemmo la località di Meshede, vicino Essen, Dortmund. Il campo di concentramento era adiacente a una grande fabbrica. Tutti noi operai eravamo prigionieri provenienti da varie Nazioni. Producevamo bombe per conto dei nazisti.
Nel campo vivevamo in baracche. La mattina e la sera ci davano una minestra di barbabietole.
Eravamo tutti deboli e molti si ammalarono.
Dopo tre anni arrivarono i soldati americani e ci liberarono. Si presero cura di noi e per un mese ci diedero da mangiare affinché riprendessimo le forze. Poi arrivò un generale russo e ci disse “I vostri genitori vi aspettano. E’ ora di tornare a casa. Avete finito di soffrire!”.

Così iniziò il lungo viaggio di ritorno. Spesso si facevano soste di giorni perchè la linea ferroviaria che portava ad Est era stata distrutta dai bombardamenti. Sul treno erano migliaia.
“L’ultimo tratto di strada, 36 chilometri, lo feci a piedi. Quando arrivai qui a Staryna era tutto distrutto. Della famiglia non c’era traccia. Tutti morti. Era rimasto solo il nonno che viveva in una capanna. Così abbiamo vissuto per tre anni nella miseria.
Dei miei genitori e dei fratelli non seppi più nulla. Non c’era cibo e il nonno andava a pescare nel fiume per mangiare del pesce. D’inverno si gelava e preparavo minestre di patate. Appena ci riorganizzammo, ripresero le attività del Kolchoz le cose andarono meglio. Dopo tre anni mi sono sposata. Lui aveva cinque anni più di me. Si chiamava Archom Alexandrovic.
Abbiamo avuto una buona vita insieme. Sono nati i nostri figli Nikolaj e Andrej e sono nonna di 9 nipoti. Archom, mio marito, è venuto a mancare 2 anni fa e mi sento sola.
I figli si sono trasferiti perché qui nella palude è difficile vivere e manca il lavoro”.

Sul tavolo della cucina ci sono due libri, la Bibbia ed il Vangelo, e le icone dei santi.
Hanna é molto religiosa e si lamenta dei dolori alle gambe che le impediscono di raggiungere la chiesa nel vicino villaggio di Vialenicy.

Lasciamo Hanna e torniamo alla barca. Ritroviamo Slava ed un pò di generi di conforto. Ci attendono giorni di viaggio, lunghe remate, per ritornare sulla terra ferma. L’intrico di canali è ramificato e interminabile.
Se non ci fosse in nostro valido Slava, che conosce la palude come le sue tasche, io e Maxim rischieremmo di perderci per sempre e restare vittime degli orsi o del Generale inverno.
Tornati a Minsk, festeggiamo come dovuto e poi un forte abbraccio sancisce la fine di una grande avventura. Confesso che in qualche momento mi è sembrato di essere Henry Morton Stanley alla ricerca delle sorgenti del Nilo.
Non dimenticherò mai quelle persone, le loro isbe e le torbide acque del Prypjat.

Commenti (2):

  1. Ornella Frizzera

    30 Novembre 2023 il 3:47 PM

    Sono commossa. Un bel viaggio, tante storie, miseria ma anche grande senso di ospitalità. Grazie. Le foto sono stupende. Mi ricorderò di te. Ornella

    Rispondi
    • Livio Senigalliesi

      30 Novembre 2023 il 3:54 PM

      Buon pomeriggio Ornella e grazie per l’attenzione. Quel viaggio così avventuroso alla scoperta di una regione sconosciuta d’Europa è stato un’esperienza umana straordinaria. Un caloroso saluto

      Rispondi

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